Questa è la storia dell’uomo che voleva essere Tom Waits, uno con lo sguardo accartocciato sul pianoforte e quell’aria da commesso viaggiatore che ha appena perso il lavoro e se ne va in giro di notte con una sigaretta a fargli luce e l’orecchio allenato a captare pezzi di vita, di conversazioni, segreti, dolori, speranze buttate all’alba in qualche cassonetto e amori sfasciati. Tutte quelle storie che la gente comune dimentica in fretta e lui raccoglie e racconta con una manciata di note e la sua voce. Quest’uomo hanno cercato di classificarlo in ogni modo, con l’idea di portarlo negli scaffali del negozio più vicino per dargli un nome, una qualifica, un vestito, un’etichetta, magari un prezzo. E venderlo. È un guitto, un artista di strada, un quadro di Hopper, è blues, è country, è teatro canzone, è una specie di jazz, un caratterista da coffee and cigarettes, un tassista ubriaco, lo sgherro di Dracula, un ventriloquo, uno che compare nei film di Coppola, un rain dog, uno che con quella voce può fare solo l’autore o l’attore. E ogni volta lui a dire e a ripetere: guardate che sono solo Tom Waits. «Non ho mai fatto parte dei caffè degli artisti, in un certo senso mi è mancato. Sono stato sempre ai margini. Ho cominciato a scrivere e fare musica perché non riuscivo a inserirmi. È per questo che oggi non voglio che mi si dica dove mi colloco o di cosa faccio parte, perché ho cominciato a fare questo lavoro per le ragioni opposte». Eppure Tom Waits non vuole neppure rompere le scatole con quelle menate sul cantastorie alternativo, il maudit, il vagabondo che puzza di birra. Basta leggere Il fantasma del sabato sera (minimum fax), la raccolta di interviste che vale una biografia. Waits davanti a ogni giornalista di quarant’anni e passa di carriera non fa altro che scartavetrare la retorica del genio maledetto. Certo, è cresciuto leggendo Kerouac, ma la vita on the road non ha nulla di eroico, la vivi perché sei cosi, senza pose, calcoli, fatica, ragionamenti. Poi alla fine incontri una donna speciale che ti mette a posto la casa, ti costringe a rifare il letto e soprattutto è una con cui non ti senti solo, perché lei sa come coccolare la tua intelligenza. Nei primi anni Novanta, Tom si è trasferito con la famiglia nel nord della California e ha pubblicato Bone Machine che gli garantisce un Grammy per la miglior performance di musica alternativa. «Quando ha vinto il Grammy ha dato di matto – ricorda Jim Jarmusch – lo odiava, gridando: alternativo a cosa? Che diavolo significa?». Waits è uno che negli anni ’80 si è preso una pausa di qualche anno e quando gli hanno chiesto il motivo ha tirato fuori la storia che stava imparando a fare il meccanico, perché era stufo di farsi fregare da chi ne sapeva più di lui. Gli chiedono quali sono le cose che non sa fare e lui butta giù l’elenco: «Trovo difficile la matematica. Leggere una cartina geografica. Eseguire gli ordini. La falegnameria, l’elettronica, i lavori da idraulico. Ricordare le cose in modo corretto. Tirare una linea dritta. I pannelli di cartongesso. La pazienza verso gli altri. Ordinare in cinese. Le istruzioni dello stereo in tedesco». Eppure ha ragione Paul Maher Jr, che nella prefazione di Il fantasma del sabato sera, scrive: «Waits è l’insegnante che tutti avremmo voluto avere. Immaginate quella voce, immaginate il frammento di latta che gli graffia la gola mentre legge Moby Dick, Le avventure di Huckleberry Finn o John Steinbeck. O anche quando ci mette in guardia dai pericoli insiti nelle proposizioni coordinate per asindento. Non riuscirebbe a rendere interessante l’impensabile?». È per questo che ti senti quasi parte di un club, quello di chi vuole solo ascoltare le sue storie. Non sai perché ma ogni volta ti viene quello che ti disse Ronald Everett Capps, l’autore di Una canzone per Bobby Long. «C’è un circolo segreto, sai. E i soci non sono tanti. Sono silenziosi, si annidano nell’oscurità, proprio davanti al tuo naso. Quando li vedi, è probabile che tu non li riconosca nemmeno. Non indossano abiti speciali. E li puoi trovare all’angolo di una strada tanto quanto in un bordello o in una biblioteca o in una chiesa o in un laboratorio. Molti sono in manicomio. Ce ne sono di tutte le stazze e razze, sessi e religioni. Sono quelli che sanno ascoltare ciò che gli occhi non possono vedere». Perché quelli come Tom Waits qualche volta ti è capitato di incontrarli in giro e alcuni sono perfino tuoi amici. È gente che suona in locali dove non passa un discografico neppure a pagarlo, dove ci si trova più o meno sempre gli stessi, dove si fa buona musica senza pensare se funziona o non funziona. Questi Tom Waits, come l’originale, si aspettano al massimo che quello che fanno gli serva per campare e scrivono, suonano e cantano perché è la cosa che fanno meglio. E come in una canzone di Paolo Conte se sbagliano lo fanno da professionisti. È quello che resta quando gli artisti, quelli alternativi, si sono messi a occupare i teatri. Chi è allora Tom Waits. La risposta ce la dà lui. «Tom Waits è una voce che qualcuno ha messo in giro».

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