Chi difende i diritti dell’uomo senza qualità?
Scusate, ma ci sarebbe anche lui. Lui, quello che ormai quando si parla di diritti viene troppo spesso dimenticato. Quello che spesso manca nella foto di gruppo, perché più invisibile degli invisibili. Quello senza etichette e che non trova spazio nel calendario delle giornate da dedicare. Il povero cane sciolto, magari banale, forse percepito come troppo astratto, ma maledettamente reale, perché è poi per lui che è stata costruita tutta l’architettura sacrosanta dei diritti dell’uomo. E lui è l’io, l’individuo. Senza aggettivi qualificativi, senza generi, senza razza, così universale da superare ogni discussione sul sesso degli angeli, perché il bello degli individui è che sono padroni assoluti della loro sfera privata. L’individuo in fondo dallo Stato pretende una sola cosa, la libertà. O detto in maniera più rude: che si faccia i cavoli suoi. Non chiede bandiere o riconoscimenti, ma spera sempre che l’erede del leviatano resti fuori dalla porta di casa sua. Magari perché non si fida. Ricordate? La mia casa è il mio castello.
Questo non significa che non bisogna ancora battersi per i diritti di chi storicamente è stato più discriminato, soprattutto in quei casi in cui il problema ancora esiste, è concreto. Non c’è dubbio che vadano tutelati i diritti di donne, bambini, omosessuali, migranti, di chi riceve insulti e ululati per il colore della pelle, di chi viene discriminato perché il suo pensiero non ha diritto di cittadinanza, di tutte le ragazze vendute sulle strade del mondo. I diritti di tutti i gruppi e di tutte le minoranze discriminate per un motivo o per l’altro. Questa è la storia dell’Occidente, quella fuga dalla schiavitù cominciata dai servi della gleba, dai feudi verso le città, strappando anno dopo anno un centimetro di libertà in più. E questa storia non è ancora finita. Solo che questo è inutile se si mette da parte l’uno, il singolo uomo e i suoi diritti inalienabili. Anche se quell’uomo ti sta antipatico, se è impresentabile, se puzza, se è ignorante, se non corrisponde perfettamente alle élite delle culture da tutelare, se non dà punti nella classifica del politicamente corretto, se è molto basso e irascibile, se non rappresenta il tuo ideale di elettore, se è un’olgettina o un tronista o vive alla periferia infetta e dannata delle metropoli. Anche se non ha i requisiti culturali doc. Perfino se è il più classico dei borghesi piccoli piccoli, quelli che la mattina vanno a lavorare nel loro piccolo negozio e che non fanno rumore e quando la crisi li azzanna e le banche non gli danno fiducia la fa finita, pensando che quello sia l’ultimo atto di una vita dignitosa.
Si parla molto di diritti in questi anni, per fortuna. Ci sono campagne per denunciare i nostri pregiudizi e le nostre viltà. Ottimo. Però in questo quadro c’è qualcosa che manca. Si parla sempre di gruppi, con il rischio di segnare altri confini, altri muri, quasi che ogni «lobby» fosse un popolo diverso, con la sua forte identità, i suoi uffici stampa, i suoi centri di reclutamento, i suoi interessi troppo particolari, le sue permalosità. Nessuna attenzione invece all’uno, che invece in questa storia è tutto. Perché se non si difendono in primo luogo i diritti dell’uno, del singolo, tutto il resto rischia di diventare solo retorica. Se salta l’uno ogni gruppetto si rifugia nel suo territorio, pensando a difendere non l’uomo, ma uno dei tanti aggettivi che può qualificarlo. Se salta l’uno, la prossima volta poi tocca a te. E non basta una lobby a difenderti. Ecco l’errore. Non stiamo più difendendo l’umano, ma i tanti suoi aggettivi. Forse perché l’uno, l’io, in una cultura dove ci si è ammazzati per la classe, la razza, lo Stato, la religione è un intruso, un clandestino, un maledetto individualista. Eppure senza di lui non c’è nulla.
Voi dite che l’io non rischia? Pensateci. Ci sono ogni giorno ingiustizie contro l’uomo senza qualità, senza aggettivi, che stanno diventando scontate, normali, come colpi sordi nella neve. L’io cade in quel 40 per cento di carcerati che sta dietro le sbarre senza un processo o una sentenza definitiva. L’io cade quando un fotografo può puntare l’obiettivo dentro le mura di casa e rubarti l’intimità. L’io cade quando le intercettazioni non vengono utilizzate come prove processuali ma finiscono sui giornali per improvvisare processi di piazza. L’io cade quando lo Stato se ne frega del segreto bancario. L’io cade quando ci si dimentica che in democrazia ogni voto ha lo stesso valore e non esistono voti buoni e voti brutti. L’io cade quando un cantante con ambizioni filosofiche dice che una parte politica è non umana e nessuno si scandalizza, ma si invocano le sue dimissioni perché parla di troie in Parlamento. Perché la prima affermazione non fa scandalo e la seconda sì? Perché davanti all’inumano la Boldrini non si è indignata? Perché non è di moda? L’io cade quando più della metà del tuo reddito finisce nelle casse dello Stato, e se continua così si torna servi della gleba. L’io cade quando un welfare grasso e politicamente corretto non ti vede. Perché non c’è una lobby dei cani sciolti. Perché alla fiera delle identità, dove si vendono orgogli e pregiudizi, se non hai una medaglietta non esisti.