Le confessioni di un figlio del secolo
Le ombre delle rivoluzioni sono lunghe e lasciano la scia di vecchi fantasmi, reduci che hanno attraversato quell’era di ebbrezza collettiva, continuando a vivere con quei ricordi, sbattendoli in faccia a chi veniva dopo, incapaci di fare i conti con le proprie barbe bianche, con la presunzione di avere vissuto un’epoca straordinaria, che rende tutto il resto, il domani, il dopodomani, il passato che non gli appartiene, gretto o superficiale, reazionario o misero, borghese o qualunquista.
Di solito questi reduci diventano i sacerdoti del «passato che non passa», nati rivoluzionari, ingabbiano tutto ciò che viene dopo in una morsa paralizzante. Sono vecchi che non sopravvivono al proprio tempo, si siedono sulla cattedra e continuano a profetizzare sogni già andati al macero. Ma il loro peccato non è sopravvivere al loro fallimento, bensì l’avere evocato tutti gli ideali e tutte le utopie, e di averle poi bruciate, lasciando ai posteri un deserto di cenere e d’incanti. Uno di questi vecchi, scrive lo storico dell’università di Torino Sergio Luzzatto in Ombre rosse, il romanzo della Rivoluzione francese nell’Ottocento (il Mulino, pagg. 185, euro 15), è il fascinoso Barras, ex uomo forte del Direttorio. Il figlio di un generale della Grande armée napoleonica, Alexandre Dumas, lo racconta così: «Nel 1829 Barras era uno splendido vecchio di settantaquattro anni. Ancora me lo vedo sulla sua sedia a rotelle, dove soltanto le mani e la testa sembravano ancora vive. Ogni tanto questa vita morale (se così si può dire), vita fittizia, vita tutta di volontà, lo abbandonava, allora aveva l’aria di un moribondo». Era, agli occhi della generazione post rivoluzionaria, una sorta di fantasma.
Luzzatto racconta il disagio di chi ha vissuto quella stagione di mezzo, la generazione di Alfred de Musset, che nelle Confessioni di un figlio del secolo lamentava di essere troppo giovane quando c’era da seguire Napoleone e troppo vecchio per i fuochi del ’48. «Sul paesaggio della Restaurazione e del Quarantotto – scrive Luzzatto – si allungarono le ombre dei giacobini del Settecento, ombre rosse di fatica, di vergogna, di sangue. Uomini vecchi s’incontrarono (o si scontrarono) con uomini giovani, con figli che si facevano adulti giudicando l’operato dei padri: riconoscendoli come eroi o giudicandoli come assassini. Se poi questi giovani si chiamavano Honoré de Balzac o Victor Hugo, capitava che i loro conti col passato divenissero capolavori letterari come Papà Goriot o I miserabili».
Nell’estate del 1828 uscì a Parigi un corrosivo pamphlet di un ginevrino poco più che trentenne. Il titolo era De la gérontocratie. L’autore si chiamava James Fazy, e scriveva: «Che straordinario istinto di dominazione muoveva dunque la turbolenta generazione dell’89. Essa ha cominciato con l’interdire i propri padri, e finisce con il diseredare i propri figli». Fazy esprimeva così il proprio disagio, le idiosincrasie, le proprie velleità. Avida di potere, la generazione dell’Ottantanove aveva sperperato le risorse economiche del futuro, aveva scritto leggi che fotografavano solo i propri interessi, aveva blindato le élites culturali. Il risultato, secondo Fazy, era una Francia concentrata e rimpicciolita in sette-ottomila individui “eleggibili”, ma «asmatici, gottosi, paralitici, arteriosclerotici». Fazy si presentava come l’esecutore testamentario della generazione rivoluzionaria. «Voi – diceva – vi consumate nelle vostre vecchie lotte, mentre le nuove generazioni cercano la concordia, voi siete lì ancora a temere o a evocare la rivoluzione, mentre la gioventù non impiega più questa parola intorno alla quale vi scannate tanto». Balzac se la prende con i «falsi giovani» e i «giovani vecchi» che confiscano il potere, «arlecchini strappati ai palcoscenici della Rivoluzione, dell’Impero e della Restaurazione». Flaubert risponde ai vegliardi che non passano regalando ai suoi personaggi lezioni di scetticismo e di disincanto, ottimi antidoti per i tormentoni rivoluzionari. E così, nell’Éducation sentimental, mentre a Parigi si sale sulle barricate di giugno, si spara e si cade uccisi, un trasognato Frédéric Moreau gira per Fontainebleau al braccio della sgualdrina Rosanette. Luzzatto qui fa un’ipotesi un po’ ardita. Secondo lo storico il messaggio del romanzo di Flaubert è la denuncia del kitsch che sta dietro ogni rivoluzione e ogni restaurazione. Flaubert raccoglie in poche righe i vent’anni centrali della vita di Frédéric: «Viaggiò. Conobbe la malinconia dei bastimenti, i freddi risvegli sotto la tenda». Per Luzzatto questa biografia in poche righe è il ritratto di una generazione che si è persa, una generazione a cui hanno tolto la possibilità di crescere, di maturare, precipitata dalla gioventù direttamente nella vecchiaia. Quella generazione di passaggio, appunto, in cui si riconosceva De Musset, sacrificata sull’altare dell’avidità di assoluto di chi l’ha preceduta.
Qualcuno potrebbe riconoscere nella generazione perduta dell’Ottocento qualcosa di noto. Qualcuno potrebbe guardarsi allo specchio e dire: la storia si ripete. Potrebbe mettersi in testa di sostituire al 1789 e al 1793 altre date e altri anni, magari 1968 e 1977. Potrebbe sostituire Barras con con quella generazione di settantenni santificata suLa Stampada Mario Deaglio. La chiama la generazione perfetta. potrebbe dire che anche tra i giacobini ci sono stati «sommersi» e «salvati». Anche noi abbiamo i nostri reduci e i nostri fantasmi. Anche noi non vorremmo restare prigionieri del passato e trascorrere le giornate a leggere di partigiani e repubblichini, fascisti e comunisti, sulle pagine culturali dei quotidiani. Anche noi vorremmo parcheggiare nella storia i ricordi dei vecchi. Ma quest’equazione non si può fare. Ci mancano Flaubert e Balzac, ci mancano i Promessi sposi e i Miserabili. Ci manca un romanzo che chiuda i conti con la storia, uno straccio di capolavoro capace di relegare i rapaci e patetici vegliardi in un cantuccio di commiserazione. Ci manca il coraggio di sorridere ai fantasmi.