La maledizione di Guttmann ha la data di scadenza
Non fateli arrabbiare, non si sa mai. Ci sono tipi che senza neppure accorgersene sacramentano in un momento di rancore profondo e assoluto, e buttano una di quelle maledizioni vietate perfino nella saga di Harry Potter. Se questo accade quando c’è di mezzo una palla quell’anatema non te le togli più di dosso. E dal destino.
La maledizione del bambino durò 86 anni, dal 1918 al 2004. La conoscete. I Red Sox vendono Babe Ruth ai New York Yankess e su di loro cade il buio. Prima tante vittorie e cinque titoli mondiali, poi più nulla. Bisogna aspettare il nuovo secolo per smacchiare l’anatema. Quando scade una maledizione? E’ quello che continuano a chiedersi i tifosi del Benfica. E’ da 51 anni che la squadra portoghese non vince la Coppa dei Campioni. Ma la vera disgrazia è aver perso dal 1962 sette finali: Milan (1963), Inter (1965), Manchester United (1968), Anderlecht (1983), Psv (1988), Milan (1990), Chelsea (2013). Devono passare cento anni e questo è il motivo.
Béla Guttmann è un personaggio straordinario, uno di quelli che potresti passare una vita a raccontarlo. E’ ungherese, ebreo, un centromediano con l’ossessione dell’eleganza, un vecchio Pirlo, e con un carattere per nulla facile. Quando a Budapest arrivò al potere Miklòs Horthy e per gli ebrei cominciò a tirare brutta aria, lui si traferì a Vienna, e nel contratto con l’Hakoah fece aggiungere una clausola: giocare sempre con una maglietta di seta. Quella dopotutto era una squadra di lusso. Nel 1923, con Guttmann a disegnare geometrie invisibili, fece capire agli inglesi che non basta inventare il calcio per essere imbattibili. L’Hakoah andò a Londra e vinse cinque a zero contro il West Ham. Era la prima volta che gli inglesi perdevano in casa. Ed è un po’ come far perdere agli dei la sicurezza dell’immortalità. Lo Sport Club Hakoah di Vienna giocava in biancazzurro e con la stella di David sulla casacca. Tra i suoi tifosi c’era uno scrittore di Praga, Franz Kafka. Una squadra che andava in giro per il mondo a profetizzare il football e a raccogliere fondi per la terra promessa. Nel 1926 si presentano a New York, dove il soccer suona parecchio strano. Li fanno giocare al Polo Grounds, dove gli americani andavano per vedere il baseball o gli incontri di boxe. E’ qui che nel ’23 combatterono Jack Dempsey e Luis Angel Firpo. E’ qui che gente come Joe Louis, Rocky Marciano, Sugar Ray Robinson e Floyd Patterson sono diventati leggenda. Quanti spettatori andarono per vedere il calcio? Tanti. Quarantaseimila, un record che durò per 51 anni. Tutti lì per vedere questa strana nuova cosa che sbarcava dall’Europa e anche per aiutare la causa, degli ebrei. Peccato che non abbiano capito molto. Guttmann la racconta così: “Quando abbiamo disputato la nostra prima partita a New York gli spettatori conoscevano così male il calcio da confonderlo col football americano. I gol segnati li lasciavano completamente freddi, ma i tiri forti che uscivano ben alti dietro la porta erano presi per i punti del rugby e suscitavano uragani di applausi. Capita l’antifona cominciammo a tirare il più in alto possibile”.
Visto che stavano a New York qualcuno, tra cui il nostro centromediano, pensò di restare. E fondarono la Hakoah All-Stars. Nel frattempo Guttmann pensò bene di investire gran parte dei suoi soldi in borsa. Era il 1929. Si rovinò. Qualche anno dopo tornò in Austria, per chiudere la sua carriera da calciatore. E qui comincia l’allenatore. Nel 1938 è in Austria alla guida proprio del Hakoah, solo che c’è anche Hitler. Anschluss. Austria e Germania una sola nazione. Non c’è spazio per gli ebrei. Guttmann si rifugia in Ungheria, ma anche lì non c’è futuro. Non si sa bene dove abbia passato gli anni della guerra, forse in Svizzera. A tutti lui comunque rispondeva: “Dio mi ha aiutato”. Finisce la guerra e quest’uomo è ovunque, o ovunque inventa gioco, vittorie e campioni. In Ungheria allena l’Honvéd e tra i suoi giocatori c’è Puskàs. C’è la nazionale, ma la lascia perché litiga con il suo giocatore migliore. Nel ’49 arriva in Italia, Padova e Triestina. Poi va in Argentina dove lancia Humberto Maschio. Torna in Italia e allena il Milan del Gre-No-Li, c’è anche Schiaffino e un giovane terzino, Cesare Maldini. Lascia il Milan e prende il Lanerossi Vicenza. Poi salto in Brasile, qui allena il San Paolo e s’inventa un nuovo sistema di gioco, il 4-2-4. E’ il modulo a cui si ispira la nazionale brasiliana di Vicente Feola per vincere il primo mondiale. Sempre in viaggio, tra l’Europa e le americhe. E’ il 1959 e qui comincia la storia della maledizione.
Portogallo. Benfica. Qui Guttmann vince tutto, scudetti e coppe dei campioni. L’architettura della sua squadra poggia su quattro giocatori delle colonie: l’attaccante José Aguas, il portiere Costa Pereira e due centrocampisti Joaquim Santana e Mario Coluna. Poi scopre un ragazzo del Monzambico, il più forte che il Portogallo abbia mai avuto, Eusebio. E’ con lui che vince la seconda coppa dei campioni. In semifinale contro il Tottenham e poi la finale contro il Real Madrid di Puskàs e Di Stefano. Il primo tempo finisce con il Real in vantaggio per tre a due. Guttmann negli spogliatoi sentenzia: “La partita è vinta. Loro sono morti”. Finisce 5 a 3 per il Benfica con doppietta di Eusebio. Ma qui tra l’allenatore e il club si rompe tutto. Questione di soldi. Guttmann chiede un premio per la vittoria, i dirigenti rispondono che non è previsto dal contratto. Se ne va sbattendo la porta e sacramentando. La maledizione: “Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d’Europa ed il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni”.
Pensate solo alle prime due sconfitte, quelle degli anni ’60 con Milan e Inter. Contro Rivera, Sani e Altafini i portoghesi giocano più di un tempo in dieci. Si fa male Mário Coluna, il regista, chiamato O Monstro Sagrado, il mostro sacro. Non c’erano sostituzioni. L’avventura del Benfica finisce a pochi minuti dalla fine del primo tempo. Passano due anni e tocca all’Inter. La grande Inter di Herrera aveva vinto l’anno prima contro il Real Madrid. Questa la gioca in casa, a San Siro, su un campo di pioggia e fanghiglia. Va quasi peggio. E’ il portiere, Costa Pereira, a riparare negli spogliatoi. In porta finì Germano, un terzino. Uno a zero, gol di Jair. Il solo contatto con il Benfica costò all’Inter quarantacinque anni di lacrime e illusioni. Come antitodo contro il malocchio serviva un lusitano in panchina, uno speciale, uno molto simile a quel genio antipatico di Béla Guttmann. Josè Mourinho, naturalmente.