Quanti anni ci vogliono per costruire una guerra civile? Meno di dieci anni, andando a braccio. È quello che pensi in una sera come questo, mentre a pochi passi da casa tua si sentono i colpi sulla racchetta che arrivano dal Foro Italico, con gli spettatori che interrompono il silenzio sul 15, sul 30 o sul l’ultimo vantaggio. Sembrano tanti quest’anno gli spettatori. Forse è l’abitudine o forse la crisi colpisce dove più folto è il gruppo.
Solo che la recessione è solo uno degli ingredienti della bomba. Poi c’è la paura. Poi c’è quell’orizzonte troppo miope, che non solo non ti fa vedere il futuro, ma ti fa pensare che dopotutto non esiste. Quindi arrivano le parole e quelle ci sono da tanti anni, parole, parole, che prima restavano sull’altare dei giornali, poi rimbalzavano assordanti nella cripta tv delle anime morte, e poi tornavano come spot di frasi fatte e ora scorrono velocissime sulla rete e come particelle alimentari acquistano massa e odio nel loro viaggio, si appesantiscono, rallentano e si acquartierano in pozzanghere sempre più grandi, fangose, come sassi. Mancano ancora un paio di ingredienti. Ci vuole una classe dirigente che in più cominciano a sentire come illegittima, perché non vede, non sa, non si rende conto e si nutre dell’incoscienza di una multitudine naturalmente in ordine sparso di piccoli e grandi egoisti, in quanto tali convinti della loro sagacia nel controllare e manipolare il prossimo e totalmente incoscienti. Non stanno mica tutti nel Palazzo. Stanno ovunque, nei dintorni e nel sottobosco, a tiro di naso dal potere centrale o nascosti nelle periferie, dove si aprono i rubinetti delle clientele e giù in valle fin dove arrivano gli ultimi rivoli. E questi egoisti sono tanti, davvero tanti. Ultimi e fatali arrivano i predicatori con il loro gregge di intolleranti. La miccia è sempre l’ideologia. Si è condensata anno dopo anno. È diventata visibile nel 2008 all’inizio della crisi, data che coincide anche con l’ultima vittoria elettorale di Berlusconi, sofferta dai suoi avversari politici e perfino dai suoi alleati come un ennesimo scherzo del destino. Quando poi l’uomo è risorto dalle macerie del suo governo gli italiani si muovono come mosche nel bicchiere.
Ora stanno accadendo cose evidenti. Per esempio la Tav non è più una questione reale, pragmatica. Non è un dissenso pratico, come mettere una cosa qui o là, dove c’è chi è d’accordo, chi vorrebbe spostarla più in là, chi non la vuole tra i piedi, chi perde la pazienza e comincia a prenderla a calci, ma non si sogna di dargli un significato esistenziale. La Tav è definitivamente un simbolo, una bandiera per la quale vivere o morire. Ed è su queste cose diventate immateriali che la gente comincia a scannarsi, perde lucidità. Poi accede che quelli che discutono del Tav e di altri miriadi di questioni si vedono come umanità inconciliabili, due popoli diversi, incompatibili, tanto che se si guardano negli occhi non si riconoscono, non si appartengono. Questa distanza cresce, tanto da far dire: ma se lo cancello non è peccato. Stiamo creando una cultura dell’intolleranza, che evolve verso la disumanizzazione di quel l’altro che ti sta di fronte. Se tutto questo non bastasse gli uomini che rappresentano le istituzioni stanno gettando la maschera, stanchi di mantenere una parvenza super partes.
Non sei l’unico che si rende conto di queste cose, ma il rumore degli intolleranti non ti fa sentire quelli sentono e vedono quello che stai vedendo e sentendo tu. È in questa solitudine che temi che ormai sia troppo tardi, che la forza che spinge la storia e il destino verso lo scontro è irreversibile e si trova a un sospiro dalla linea del non ritorno, dal punto di fuga. Allora ti siedi sul divano e ti chiedi da quale parte dello schianto sarai.

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