Pezzi di facce, pezzi di cartone, pezzi di vita, pezzi di religione, pezzi di stelle, di memoria, di stracci, di notizie, fatti, personaggi, miti, eroi, ma non quelli che frequentano l’olimpo della modernità, più che altro gente finita negli scantinati della storia, dove il sole da tempo non arriva più, i dimenticati, quelli con il quarto d’ora di celebrità nell’album di famiglia, nelle foto in salotto, o finite per sbaglio dal rigattiere dopo qualche trasloco. Tutto questo fasciato in pennellate di vernice o di colori a tempera, frammenti a cavallo tra due secoli, ritagliati e messi su da un artigiano dello sberleffo, qualche volta poetico, altre inchiodate a un calambour dissacrante, con la voracità del finto cinico, uno che si porta dietro il disincanto di chi è partito lucano e si è ritrovato milanese.

Non bisogna fidarsi in fretta di Antonino Materi, per gli amici Nino. E’ quel tipo d’artista che ti guarda con strafottenza e sembra quasi prenderti in giro. Ci metti tempo a capire che dietro la sua maschera c’è molto più del vero. Non lasciatevi ingannare, farà di tutto all’inizio per lasciarsi sottovalutare. La verità è che Nino ha capito questo tempo. Non gli piace, ma lo bazzica. Lo schernisce fingendo di essere dalla sua parte. Lo usa. Ci fa vedere dove diavolo stiamo andando a raccattare l’identità perduta. Se la Pop Art aveva messo al centro del mondo la merce, il prodotto, la zuppa, e i volti dei nuovi déi del consumismo, quelli che diventano eterni con una copertina su Time, Materi gioca con quel che resta dell’umano, con i consumatori della zuppa Campbell’s, delle figurine Panini, di Chi lo ha visto?, della tv che non è più spazzatura ma riciclaggio di anime morte, di un presente che ha la stessa instabilità di una particella sfuggente e che allo stesso tempo si riproduce senza sosta, in un eterna maledizione da attimo fuggente.

Non so se Nino ricorda il primo quadro che mi ha regalato. Era il mio compleanno, credo. Erano frammenti su tela di tutto quello che il giornalismo è stato nei nostri sogni, quello che volevamo essere, gente con la polvere sotto le scarpe, in cerca di storie, di qualcosa se non di assolutamente vero, ma almeno verosimile, viaggiatori, narratori, cani sciolti, viandanti, testimoni, gente annusata nei romanzi di Hemingway o nelle corrispondenze finlandesi del giovane Indro, capaci di scrivere, magari piangendo, della nostra terra sommersa da una diga come Buzzanti davanti al Vajont. In quelle immagini, frammenti di illusioni, c’era però qualcosa che sapeva di sconfitta, di beffa, di paradiso perduto, come se la nostra sventura fosse quella di essere arrivati a Bisanzio alla fine della sua storia, con burocrati integralisti bravi solo a disquisire sul sesso degli angeli. E nel suo sorriso c’era un segno di intesa dispettoso, una condanna cosciente, feroce: tu che volevi girare il mondo, com’è che sei finito prigioniero in questa stanza?

Quella domanda mi arriva in faccia ogni giorno, su una parete di casa e ha lo stesso sapore del monologo di Amleto con in mano il teschio di Yorick. «Questo uomo io l’ho conosciuto, fu un giovanotto di infinita facezia». Infinite Jest.

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