Il lato selvaggio di Nelson Algren (e di Lou Reed)
L’America di Nelson Algren viene dopo Mark Twain e prima di Jack Kerouac. Ma è bastarda allo stesso modo. Lo senti dall’odore e dalla fortuna che ti passa accanto e si gira dall’altra parte. Tossicchiando. E’ l’altra faccia del dollaro, quello sgualcito, che passa per mani ruvide e cotte dal sole, si perde in tasche bucate, nella schiuma di birre dozzinali, nel ventre a saldi di una ragazza. Si sa, inevitabilmente, non finisce in banca. Neppure per sbaglio, perché è un dollaro di strada. E non fa carriera. Quando questa America arriva in Europa qualcuno ci mette sopra una bandiera politica. Come se fosse una riposta, romantica e antimoderna, a tutto ciò che del dollaro non ci piace. Ma i vagabondi di Twain, Algren e Kerouac non votano, sputano in faccia al potere e giudicano un buon consiglio stare alla larga da palazzi e istituzioni. Restano picari, di un secolo americano. Nelson Algren, è nato a Detroit nel 1909, ma la sua città è Chicago. “Amare Chicago è come amare una donna dal naso rotto”, diceva. La madre ha una pasticceria, il padre fa il meccanico. Lui sogna di fare il giornalista. Studia e si laurea in Illinois. E’ il 1931 e non è il momento migliore per guadagnarsi da vivere. E’ la bancarotta post ’29, la classe media sul lastrico, i ricchi chiusi in una città fortificata con la stessa paura di chi teme il contagio. E’ un paese spaccato e disperato. L’America non è più stata così povera. Algren lascia Chicago e vaga in cerca del suo destino. Arriva fino in Texas, nella valle del Rio Grande, e lì si ferma, sperando di trovare un posto in qualche giornale locale. Finisce a lavorare come benzinaio. Per scrivere il suo primo romanzo ruba una macchina da scrivere. Quando esce “Never come Morning” è la svolta. La critica si accorge di lui. Ma per sfondare davvero deve aspettare il 1950. “The Man With the Golden Arm” vince il National Book Award. E diventa un film. Ma Algren per il mondo è una storia di letto. E’ lui l’amante d’oltreoceano, “transatlantico”, di Simone de Beauvoir, il simbolo dell’emancipazione intellettuale della donna europea, “La Grande Sartreuse”, come la chiamano i suoi detrattori, “Notre Dame de Sartre”. Insomma, la donna dell’esistenzialista Sartre. E’ il 1947, Simone è negli Stati Uniti per una serie di conferenze. A presentarli è Mary Gugghenheim. La loro relazione durerà anni. Tra la rabbia e il perdono del filosofo francese e la sensazione di Algren di essere stato ingannato. Quando Simone de Beauvoir pubblica le sue lettere all’amico americano la Francia si eccita per uno dei tanti scandali letterari di mezza estate. Lei, di lui, scrive: “Viveva in una catapecchia, senza bagno né frigorifero, accanto a un vicolo pieno di bidoni dell’immondizia fumanti e giornali svolazzanti”. Lo chiama: “Mio adorato marito senza matrimonio”. Algren non ha mai gradito che quel rapporto diventasse pubblico. Non voleva essere il rozzo stallone della colta signora di Parigi. E’ stato ricordato per questo, meritava qualcosa di più. Minimum fax ha appena ripubblicato “Walk on the Wild Side” (Prefazione di Russel Banks, traduzione di Giorgio Monicelli, pagg. 445, euro 12). E’ l’educazione sentimentale di un giovane campagnolo del Texas, Dove Linkhorn, nell’America degli anni ’30. Ma soprattutto è il romanzo della Grande Depressione. Affresco di prostitute e “paparini”, treni vagabondi presi al volo, predicatori stanchi, che non hanno più la forza di ribellarsi al costume dei tempi e biascicano dal pulpito, amare sentenze sociologiche: “Oggi le donne indossano più cose sconce di quante non se ne indossavano nei bordelli pochi anni fa”. La forza di Algren è nelle pennellate improvvise con cui racconta quest’America minore, diseredata, che può trovare la pace solo tornando indietro, a casa, ad occhi chiusi. Da qualche parte, nella retina dei ricordi, restano i ritratti delle ragazze perdute. “Non ancora ventenni sfrontate o umili. Smarrite o acchiappate, sfortunate o sfrenate. La bruna e la bionda venute da qualunque posto, che avrebbero potuto trovarsi sposate e al sicuro a Minneapolis o a Seattle, se l’economia della Vecchia Guardia non avesse finito per richiedere più amore a buon mercato e meno lavori domestici”. Come in una canzone di Dylan o di Springsteen riconosci l’odore delle “ragazze del Minnesota dai capelli ammassati sul capo come avena matura”. Vedi negli occhi delle ragazze di San Francisco “immense nebbie oceaniche che rotolano verso l’ultima spiaggia”. Senti nello sguardo delle ragazze dell’Oregon che la pioggia torna a cadere. E dici, come fa Algren, che alcune avevano avuto fortuna ed altre no, ma tutte erano nate per vivere negli anni Venti ed erano morte quando gli anni Venti erano passati”. Dopo c’erano i Trenta, ed erano simili al nulla. L’America di Algren è quella che molti hanno poi riascoltato con la voce di Lou Reed. “Walk on the wild side”, appunto. Quella che attacca così: “Holly veniva da Miami, Florida, ha attraversato gli Stati Uniti facendo l’autostop”. E Holly è Holly Golightly, la musa transex di Andy Warhol, la regina della Factory, una creatura pansessuale che l’uomo della pop-art aveva generato con la stessa facilità con cui moltiplicava il volto di Marilyn e le zuppe Campbell. Ma il “lato selvaggio” di Lou Reed è più fortunato di quello di Algren. La generazione narrata dal figlio del meccanico di Chicago non ha avuto né l’età del jazz, né il mito on the road. E’ passata, sopravvivendo alla miseria e ai sogni di carta di Wall Street. Aveva già perso l’innocenza e si è fottuta la speranza. Restavano i ricordi. Walk on the wild side è un salto nella stagione perduta: “Tutto ciò avveniva molto tempo fa, durante una breve primavera ormai scomparsa, in un luogo che non c’è più. In quell’ora in cui cominciano le rane e il profumo delle mesquite è più forte che mai”. Anche questa era l’America.