Il vecchio Mané è disteso sul letto di un ospedale.  Il suo corpo sta diventando freddo.  Il cuore non batte più da un paio d’ore.  La sua gamba poliomielitica è ferma e la sua micidiale finta, sempre quella stessa finta,  identica, sempre uguale a se stessa come le ore che battono  sull’orologio,  non inganna più nessuno. È morto in miseria e devastato dall’alcol.  Si  chiamava Manuel Francisco dos Santos.  Era nato il 26 ottobre 1933 a  Pau  Grande, una favela distante una trentina di chilometri da Rio.  Divenne  famoso in tutto il mondo con la maglia giallo-oro del Brasile, giocò  al  fianco di Pelè, vinse due mondiali. Per tutti era Garrincha:  passerotto  dalle gambe storte.

Undici racconti più uno, undici pezzi di vita più una breve pagina lirica,  squarci di metafisica, esistenziali, che corrono lungo quella linea indefinita che divide il campione dall’uomo, la vittoria dalla  sconfitta.  Ecco le traiettorie del destino che legano Guy Moll, giovane pilota  della scuderia Alfa-Ferrari, morto nel ’34 sulla strada che da Montesilvano porta  a Pescara, con Dino, figlio del Drake il 30 giugno del ’56.  Ecco l’ultima  parata del portiere Trusevich, numero 1 di una squadra particolare, che  raccoglieva i giocatori delle due maggiori squadre di Kiev, prigionieri  durante l’occupazione nazista del 1942.  Giocarono la «partita della  morte».   L’alternativa era perdere o morire.  Vinsero.

Ecco la «resistenza» di Emil Zatopek, l’unico a vincere – Helsinki  ’52,  Olimpiadi – nello spazio di una sola settimana 5.000, 10.000 e maratona.  Firmò contro i carri armati sovietici a Budapest.  Fu allontanato dall’esercito e spedito in miniera.  Ecco Fausto Coppi che sulla  salita che da Tortona porta a Novi Ligure, le strade di casa, si vede sorpassare da un giovane sconosciuto su una vecchia e pesante Aquila Nera, la bicicletta con cui aveva cominciato a correre, «con il manubrio basso e i tubolari  larghi, il rapporto fisso e la vernice andata».  L’Airone viene staccato e si accorge di non riuscire mai, giorno dopo giorno, a tenere la ruota del misterioso cicloamatore.  Ed è questo il racconto che dà il titolo al libro:  L’angelo di  Coppi di Ugo Riccarelli (Mondadori, pagg. 152, lire 27.000). Sono storie di uomini di sport, certo, ma sono anche altro, ti  parlano – con  toni leggeri – di fragilità umane e di forze che stanno al di là dei piccoli particolari quotidiani.  Tratteggiano strane e piccole epopee.  E sanno di fato e di destino, di ineffabile e di incomprensibile, forse dell’uomo e di  Dio. È da brivido il racconto «Gli invincibili», con quella frase di José Luis Borges come intestazione che spiega il senso di ciò che verrà dopo:  «Essere immortale è cosa da poco…».  Cosa ci fa quel libro dell’Omero argentino nella biblioteca di don Tancredi Ricca, al primo piano della Basilica di Superga, il pomeriggio del 4 maggio 1949?  Don Tancredi non ha molta dimestichezza con Borges.  Non sono le sue letture, come ci è finito  tra Cervantes e Lazarillo quel volume dalla costa rovinata?  Eppure la curiosità  lo porta a sfogliare quelle pagine.  Legge così la storia di Luvanor  Cruz, cronista sportivo di El Grafico di Buenos Aires, inviato a scoprire il segreto dell’invincibilità.  Dove?  A Lisbona. È lì che giocherà una squadra  che sembra non saper perdere mai: il Torino. Legge, Don Ricca, e scopre che «il passo che avrebbe segnato l’invincibilità di quegli uomini era dunque minimo, legato appena al volo di quel fragile aereo».  Strano questo libro di Borges, in stampa il 4 maggio 1949.  Impossibile, pensa il povero sacerdote, questa data è oggi.  Poi non  ha il  tempo di dire più nulla: «Una forte emozione lo strinse alla gola…  Si alzò e corse alla finestra per respirare un po’ d’aria fresca.  Fu in quel  momento che vide l’aereo sbucare, un’ombra enorme e nera saltare di getto fuori dalla nebbia, e andarsi a schiantare poco più oltre, sul muro della  Basilica».

Era un libro di Borges, dalla copertina bianca, malridotta e annerita dal fumo: Il titolo, ancora decifrabile, era: Gli invincibili.

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