Pannella, il veggente strabordante che ci lascia tutti più miopi
«Quando ero ragazzo a Teramo mi atteggiavo a poeta. Mi sentivo Rimbaud, scamiciato, con le suole di vento, con la voglia di vivere la mia stagione all’inferno, facendo deragliare tutti i sensi. Ti ricordi i colori delle vocali? A nera, E bianca, I rossa, U verde, e la O non ricordo mai se blu o viola. Tutte e due, mi sa. Un tempo la recitavo in francese».
«Marco in fondo poeta lo sei stato. Veggente, proprio come Rimbaud».
«Mi avranno ascoltato?».
«Qualche volta sì. Magari non sempre capito».
«Mi hanno amato, gli italiani?».
«Ti faranno santo».
Era una domenica d’ottobre, l’ultima volta che ci siamo presi il tempo di chiacchierare senza fretta, nel bar di casa sua, con quelli che lo indicavano passando, e lui che salutava felice tutti. Un pomeriggio di flashback, divagazioni, reminiscenze a parlare di Montanelli e Malagodi, di Craxi e Martin Luther King, di Berlusconi e Papa Francesco, del Vangelo di Giovanni e del Giorno della civetta di Sciascia. Tutti abbiamo paura di morire, ma tu la anneghi nella tua ingorda curiosità. E chissà cosa daresti adesso per sbirciare quello che dicono di te. Sei stato un padre senza figli. Troppo egocentrico per non divorarli tutti, ma il vuoto politico, umano e culturale che lasci ha gli stessi colori dell’esplosione di una supernova. Come scriveva Rimbaud? «O l’Omega, raggio viola dei suoi occhi». Addio Marco.
Eccola è arrivata e come sospettavi ha davvero i tuoi occhi. Quegli occhi azzurri e viola, infiniti, destinati a guardare sempre al futuro, con la cocciutaggine abruzzese di chi si ritrova sempre fuori sincrono con il tempo degli altri. Qualche volta ti voltavi indietro, spiluccando da solo in qualche ristorante, come oasi dei tuoi incorruttibili scioperi della fame. Spesso su questa storia ti prendevano in giro. Non ti credevano. Non ti capivano. «Quello mangia di nascosto. Quello è un furbone. Quel vecchio sono anni che campa di politica e non crepa mai». Meschinità. Non è mai stato facile guardare la vita con i tuoi occhi. Non mangiare e non bere. Non era solo una protesta non violenta. Era illuminare. Era dire, far vedere, indicare. Ogni volta una croce, un diritto violato, una libertà stuprata, una costituzione tradita. Allora adesso andate indietro e ripercorrete quel percorso senza pane e senz’acqua e troverete il viale delle ingiustizie, una via dell’inferno che lui, come Gandalf, ha attraversato per ognuno di noi. Magari molti saranno contenti che non c’è più quel rompiscatole con la coda bianca da stregone a frantumarci l’anima con i suoi monologhi senza tempo, solo che adesso quella strada è buia e all’improvviso siamo tutti più miopi.
Je ne regrette rien. La voce è sempre di Edith Piaf, l’anima è ancora la sua. Giacinto Pannella detto Marco non ha mai rinnegato nulla. Era la sua forza, la sua storia, la sua biografia. Non c’è perdono. Non c’è peccato. Non c’è redenzione. Quest’uomo potevi prenderlo solo così, come un gigante imperfetto, scomodo, qualche volta irritante, come un perdente che non è mai stato sconfitto, come un maestro che si ribella ai suoi discepoli.
Pannella che non è di destra né di sinistra. Pannella liberale, liberista e libertario, pasoliniano, Sciascia e Cicciolina, Tortora e Toni Negri, craxiano e degasperiano, con Wojtyla e contro la Chiesa, berlusconiano e piddino, qualche volta perfino andreottiano. Pannella che è sempre e solo Pannella. Fin dall’inizio. Ti ricordi il primo sciopero della fame? «Lo ricordo bene. Inizio Anni sessanta. Lavoravo a Parigi per Il Giorno. E avevo ottimi rapporti con la resistenza algerina. C’era un vecchio anarchico francese, Louis Lecoin, uno che contro la tradizione anarchica aveva chiesto addirittura al Papa di intervenire per salvare Sacco e Vanzetti, convertito alla non violenza, con un certo prestigio nel mondo intellettuale. E a lui mi aggregai. Dopo quattro-cinque giorni smise lui e smisi io». Il motivo? L’appoggio alla resistenza algerina. Tutto comincia e finisce con i diritti umani.
«Amo gli obiettori, i fuorilegge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i non violenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione». Pannella era una vecchia zitella che ha avuto tanti amanti. Li ricordava tutti e non scomunicava nessuno. Craxi gli diceva: «Non posso starti sempre a sentire, questi ci linciano». Marco ne parlava così: «Quando salvammo D’Urso, prigioniero delle Br, finì a champagne con lui. Sorrideva. E siccome non aveva ancora aggiustato i denti aveva davanti una fessura, di quelle in cui ci puoi fare i tuffi. Non era bello, ma quel sorriso aveva un suo fascino». Di Andreotti sosteneva: «Devo dargli atto che con il passare degli anni il suo cinismo cattolico romano si è trasformato in alto cinismo greco. Ha saputo crescere invecchiando».
Quelli del Pci non lo hanno mai sopportato. I radicali erano i borghesi, quelli con troppi vizi, una compagnia girovaga di buffoni e viandanti. Li chiamavano «froci e drogati». «Hanno sempre cercato di esorcizzarmi. Ci hanno vissuto un po’ come i comunisti storici avevano vissuto i trotzkisti. E mi dispiace che questo atteggiamento lo sento ancora nel Pd». È stato sempre così. La sinistra ha sempre cercato di tenere Pannella fuori dalla porta. E lo sopportavano solo per amore della Bonino. È difficile collocarlo. La politica è meraviglia: «Ho difeso l’Msi dal fascismo degli antifascisti». Uno dei suoi teoremi: «Il dialogo è tra persone che non condividono tutto. La sintesi è una profonda trattativa». Sembra che Papa Wojtyla ascoltasse le sue interviste: «Lo ha raccontato lui stesso. Quando arrivò a Roma, appena eletto cardinale, gli parlarono di questo politico strano che faceva scioperi della fame. Volle vedermi. Di quel dialogo ci rimase una visione non distante sull’idea di religiosità».
Pannella non sarà mai un «padre della patria». Niente monumenti. «Mi offenderebbero un po’». Un giorno gli chiesero: che fai se gli italiani ti eleggono presidente? «Mi dimetto. Significa che l’Italia non ha più bisogno di me».