Sartoris e gli antieroi delle patrie perdute
È vero. Non è facile amare il colonnello Sartoris. È uno con troppo orgoglio in corpo, troppo onore, troppe vendette. Ha continuato a combattere per una causa, ci dicono, sbagliata, quando la guerra era già persa e il sangue secco, sui vivi, sui morti, sui campi di cotone. Ladro di cavalli, dite? Certo. Affarista senza scrupoli? Anche. Incapace di capire – come canterebbe Bob Dylan – che i tempi stanno cambiando? Sicuro. È uno che uccide per uno sgarro. Lo ha fatto. Eppure al colonnello Sartoris, il reazionario Sartoris, il patriarca della saga di Faulkner, l’uomo che incarna il Sud che non vuole passare, che scava l’anima dei figli di Dixieland, e li tormenta, lasciandoli incerti tra due morali, bisogna lasciare l’onore delle armi. Perché lui è l’eroe delle patrie perdute. Gli invitti (da poco ristampato da Einaudi, pagg. 230, euro 17) è un libro che Faulkner scrisse pensando ad Hollywood. Opera minore. Eppure è proprio leggendo quelle pagine che accade qualcosa di strano. Guardi il volto del patriarca con lo sguardo di Bayard, suo figlio, e ti accorgi che il taglio tra il passato e il futuro è più netto. È tutto nella scelta di Bayard di rinunciare alla vendetta. È la parola fine su tutto ciò che Sartoris rappresenta. Una fine senza rancore, l’ultimo badile di terra su ciò che è stato. Leggi e pensi che Bayard faccia la scelta giusta. Appartiene al nuovo. Ma scopri anche che Sartoris è un eroe da amare, con tutti i suoi difetti. Capisci le sue ossessioni. Il vecchio Sud non ha più ragione di esistere. Lo sanno gli sconfitti. Lo sa Lee che consegna la spada a Grant. Lo sanno anche gli «invitti», quelli che rifiutano di arrendersi. E lo sa soprattutto Sartoris. La storia è contro di lui. Forse anche la morale, l’intelligenza, la forza, il destino. Il colonnello da tempo non combatte più per vincere, neppure per resistere. Combatte per essere coerente con un ricordo: fedeltà disincantata ad un mondo, che per beffa non trova né giusto né bello. È semplicemente il suo. E più vai avanti, leggi, e pensi che le sue ragioni le hai già incontrate. Leggi Gli invitti e ti torna in mente qualcosa del Gattopardo. Tomasi di Lampedusa come Faulkner? No, non è questo. È il principe di Salina che frequenta lo stesso circolo di Sartoris. Lì dove trovi l’Austria felix di Roth, la nostalgia dei narratori tedeschi dell’Est, l’eterna malinconia dei dubliners. Eroi delle patrie perdute. Ed è come se le terre sconfitte dalla storie trovassero ragione nei fantasmi della letteratura. Ma nessuno di questi eroi pensa di tornare indietro. Non ci pensa il colonnello, non ci pensa il principe. Solo che hanno scelto di lasciare ai loro eredi la fatica della metamorfosi, scoprendo che si può restare in una nicchia, per continuare a riconoscersi. Senza drammi romantici. Loro sono ciò che sarebbe diventato Jacopo Ortis se non si fosse suicidato sui Colli Euganei. Sono l’ardore giovanile che accetta la sconfitta di invecchiare. «E allora a lungo pensai che fosse la verbena nel risvolto quella che sentivo. Lo pensai finché non ebbi traversato la stanza e guardato il cuscino su cui era posata. Un singolo rametto riempiva la stanza, il crepuscolo, la sera con quel profumo che solo si poteva sentire sopra l’odore dei cavalli». Invitti