Perché Bolt ha vinto (e un po’ perso)
C’è una ruga sul suo viso, come una specie di sorriso. Il quarantunesimo passo sembra quasi al rallentatore, come se avesse voglia di sospendere il tempo, di fermarsi lì ancora un altro po’, per godersi la scena, per non dover scappare via. È lì che sorride, ma non è allegria, è come se si fosse sorpreso a ricordare con tenerezza quell’attimo che sta vivendo in quell’esatto momento. Usain Bolt sta sorridendo di nostalgia, in tempo reale.
Solo un passo dopo, oltre il terzo oro sui cento in tre olimpiadi, oltre la settima medaglia sacra e le altre due da prendersi, oltre la leggenda, comincia il suo show. Osanna dall’alto dei cieli di Rio. È come un Dio deve offrirsi ai suoi fedeli. Lo chiamano, lo invocano, lo pregano, con la speranza di poterlo solo toccare o addirittura di portarsi a casa l’immagine in carne e pixel dell’Orixà giamaicano. È il fulmine che si mostra al suo popolo con il passo leggero del giaguaro. È la statua umana che scocca la freccia verso il cielo, con il bagliore di migliaia di flash che lo catturano in eterno. Solo che tutto questo presto finirà. Usain lo sa, lo ha sentito, nella tensione della solita partenza sgranata, nella schiena che al primo strappo scarica dolore, nel non poter più inseguire la corsa del ragazzo di otto anni fa. Aveva promesso spavaldeggiando di chiudere la pratica in 9’60, due centesimi più lento del record del mondo del 2009. Ha vinto in nove secondi e ottantuno centesimi. Chi se ne frega, certo. Ma nella corsa di Usain questa volta, in finale, c’era qualcosa di strano, come un sortilegio, un incantesimo di difesa. Usain non ha vinto perché più veloce, ma perché gli altri sono stati più lenti. Sembra la stessa cosa ma non è così. Bolt nei cento è la velocità della luce, puoi andare svelto quanto vuoi ma non si può superare. Bolt è il limite assoluto. Non a Rio, però. Qui si poteva battere. Solo che lui ha allargato le braccia e li ha annichiliti con la sua personalità. Li ha rallentati. Come per magia, con l’incanto del carisma. E questo è il segno che Usain è invecchiato.
“E’ la mia ultima Olimpiade. Ora altre due medaglie e diventerò immortale”. Ma cosa accade agli immortali quando invecchiano, quando non possono più ingannare il tempo? Come si vive da leggenda vivente? Gli anni saranno lunghi e i giorni della gloria saranno sempre più lontani. Il tuo nome sarà ricordato come il più grande, i padri lo racconteranno ai figli e i nonni ai nipoti, e tu starai lì a sentirti raccontare, fino a stancarti di te stesso. E ti verrà voglia di sapere che sapore ha la sconfitta e di rinnegarti, di strapparti il passato dalla pelle, di sognare un passo falso, di assaporare la polvere, per tornare a essere mortale, per non dover scontare il tempo giocando a golf, come un ricco signore che ha tanto tempo da spendere e non prova più alcun senso di colpa per una birra di troppo o un hamburger stracarico di salsa da strafogare con le patatine fritte. Oppure semplicemente tornare a Sherwood Content, scoprendo che quella che chiami casa ha posto per un altare ma non per te, in carne ossa, tutti i santi giorni. Perché che cosa te ne fai di un dio così immanente? “Cosa ti fa più paura Usain? I giamaicani”.
È per questo che in questa notte di mezzo agosto qualcosa hai perso. Quella specie di sorriso è un solco, un confine, una frontiera. Nessuno sarà mai più come Usain Bolt, neppure Bolt. Ogni vittoria è un approdo e ti lascia la nostalgia del navigare.