Maledetti immortali
Il crepuscolo in questa stagione arriva dopo le otto di sera, quando la luce si incammina nella notte e si perde. Di solito non ci fai neppure caso, poi un giorno ti accorgi che quella terra di nessuno dove qualcosa sta finendo e qualcos’altro non è ancora incominciato assomiglia un po’ troppo al futuro della tua vita e ti ricordi perché il crepuscolo, fin da bambino, non ti è mai piaciuto. Ti angoscia. È una promessa di metamorfosi, di cui non sai la fine. Solo i mortali conoscono il crepuscolo. Solo gli umani ne hanno paura.
– Pensi mai alla morte?
– Mai prima dei pasti. Che se ho fame penso a sopravvivere. In questo momento vedo tacos de canasta con molti fagioli e chicharrones caldi.
– Non è meglio una gricia? –
No, messicano. C’è appunto un ristorante qui di fronte e mi apparecchio prima che finisca il tuo crepuscolo.
– Dovresti pensarci.
– A cosa?
– Alla morte.
– Mi sento giovane e potenzialmente immortale.
– Non ho mai visto immortali felici.
– Non avrai visto immortali. Tranne me, naturalmente.
– Io no, ma chi li ha visti giura che sono tutti irrimediabilmente tristi. Compreso te, naturalmente.
– Tipo? Statistiche, fonti, numeri. Grazie.
– Ti racconto una storia. Hai mai sentito parlare di Marco Flaminio Rufo? È il tribuno di una regione romana acquartierata a Berenice, di fronte al Mar Rosso. È un uomo di tante battaglie, molte vinte, non tutte con onore e convive da sempre con una maledetta ossessione: cercare la città segreta degli immortali. Partì con duecento legionari e una masnada di mercenari, che si dissero esperti delle strade e furono i primi a disertare. Viaggiò, fece domande, attraversò deserti, dove il viandante deve usurpare le ore della notte, perché il calore del giorno è intollerabile. Arrivò, dopo strazi e avventure, ai confini dell’Egitto. Qui si ritrovò affaticato e assetato ai piedi di una montagna, dove scorreva senza rumore un ruscello e sulla riva opposta vide mura, archi, frontoni e fori. Era lei, la città degli immortali. Un centinaio di nicchie, di grotte foravano la montagna e da quei buchi emergevano uomini dalla pelle grigia, dalla barba negletta, completamente nudi, simili ai trogloditi che infestavano le rive del Golfo Arabico. Poi il tribuno affondò la faccia nell’acqua oscura e bevve come bevono gli animali e incredibilmente si ritrovò a ripetere alcune parole greche: i ricchi teucri di Zelea che bevono l’acqua nera dell’Esepo…
– Teucri di Zelea? Ma è vera questa storia?
– La racconta Borges nell’Aleph.
– E a Borges chi l’ha raccontata?
– Era in un manoscritto ritrovato a Londra nel giugno del 1929 all’interno del sesto volume dell’Iliade di Pope. Lo aveva venduto l’antiquario Joseph Cartaphilus di Smirne alla principessa di Lucinge.
– Non ci sto capendo più nulla.
– Se mi lasci finire la storia…
– Aspetta, aspetta. Ma questi immortali nascono immortali o ci diventano?
– Ma che ti frega? Non è questa la cosa importante. Rufo dice che all’inizio neppure ci credeva davvero alla città degli immortali. Gli bastava cercarla.
– Puttanate. Come chi dice che lo scopo del viaggio è viaggiare. Invece conta. Se uno nasce immortale è un Dio, se invece lo diventa è come noi: uno che non la finisce d’invecchiare.
– Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte…
– Questo è sempre il tuo amico Rufo. Troppo filosofico. Di questi tempi tutti sono ossessionati dalla giovinezza, ma l’unica cosa che stanno ottenendo è prolungare la vecchiaia. Ti racconto io una storia, ma di numeri. Siamo nel 1960. A Roma ci sono le Olimpiadi, una mamma partorisce in ospedale e, quando le passano il neonato, quel pupo che strilla ha buone possibilità di crepare prima dei 70 anni. Chi nasce vent’anni dopo vive, in media, già vent’anni in più. Mi verrebbe da invidiare i Millennials che hanno ottime possibilità di superare gli ottant’anni, ma poi mi dico: che se ne fanno di tutta questa vecchiaia se non si godono i vent’anni? Come vedi non tutte le immortalità sono uguali. Io voglio quella degli Alphaville, Forever Young: «Balliamo in stile, balliamo per un po’. Il paradiso può aspettare, noi stiamo solo guardando il cielo. Fateci morire giovani o lasciateci vivere per sempre».
– Mi ricorda la sfiga di Eos e Titone.
– Amici tuoi?
– Eos è una dea. I romani la conoscono come Aurora. È la figlia ribelle e disinibita dei titani Iperione e Teia.
– Disinibita nel senso di zoccola?
– Ha avuto molti amanti. È la sorella «selvaggia e sfrenata di Selene, sul cui conto si raccontavano storie d’amore più passionali di quelle della dea Luna». Esiodo nella Teogonia ci svela la sua storia d’amore con Titone, un bellissimo giovane della stirpe reale di Troia. Lo rapisce per farne in eterno il suo amante. Eos chiede a Zeus, in cambio di prestazioni sessuali, di farlo diventare immortale. Zeus, sfinito, la accontenta. Solo che il padrone dell’Olimpo è un po’ stronzo. Fa di Titone un immortale, ma non ferma il suo tempo. Titone invecchia, mette la panza, perde i capelli, e Eos è abituata male. Non è una che dice: basta l’amore. Non si accontenta. Se lo è preso ventenne e focoso e se lo ritrova vegliardo. Quando Titone ha appena cinquant’anni comincia a non dormire più con lui e a tradirlo. Poi dopo i novanta se ne prende cura come un bambino. Lo veste, lo nutre, lo accudisce. Quando arriva inesorabile la vecchiaia estrema, e Titone non riesce neppure a muoversi, lo rinchiude in una stanza. Non vuole più vederlo perché, dice, la strazia quel corpo in putrefazione. Ormai del suo amato sente la voce flebile e sempre più lamentosa. Qualcuno nei secoli lo chiamerà canto, ma assomiglia di più al frinire di un insetto. Allora Eos va di nuovo da Zeus, paga il prezzo, fa quello che deve fare, e chiede al grande capo di trovare una soluzione a questa relazione ormai complicata. Zeus tramuta Titone in una cicala.
– Ma questo sul povero Titone è accanimento terapeutico. Che te ne fai della vita eterna se sei un rottame? Più che a Zeus, Eos doveva rivolgersi a Aubrey De Grey, un gerontologo che sostiene che oggi sia già nato il primo umano in grado di superare i mille anni di vita. Oltre a essere ottimista, De Grey sta lavorando al progetto Sens, che parte dall’idea che a farci invecchiare è la spazzatura metabolica. Quella che si forma nel nostro corpo e non siamo in grado di smaltire da soli. Come al solito è l’emergenza-monnezza a condannarvi alla vita breve o a diventare, da vecchi, rimbambiti come Titone. De Grey promette di organizzare per nostro conto la raccolta differenziata di questa immondizia. Mi sa, però, che la tariffa rifiuti metabolici sarà più cara della Tarsu.
– L’immortalità non è democratica.
– L’immortalità è un lusso. Se ne preoccupa solo chi ha spazzato via i pensieri quotidiani. Non a caso ci scommettono solo quelli che hanno più miliardi che capelli. Come per il tuo Rufo vale più la ricerca che la meta. Nella gara per l’immortalità corrono i colossi come Google e Amazon o Craig Venter, il cartografo del genoma umano, con la start up Human Longevity Inc. Il responmedico Brad Perkins durante un convegno negli Emirati Arabi ha buttato lì la profezia che nel giro di mezzo secolo c’è chi camperà fino a 140 anni. Tutti a caccia dell’impossibile. Sono loro i nuovi alchimisti in cerca della pietra filosofale. L’eternità. Quanto cazzo dura l’eternità? È spirito? È materia? È profonda o longitudinale? Ma soprattutto a che serve? Ti accontenta? Ti soddisfa? Io sono cresciuto con la pubblicità di un brandy, invecchiato rigorosamente in botti di rovere, come manuale di filosofia edonista a buon mercato: la felicità è un attimo, dividila con Stock 84.
– Come quelli che si fanno i selfie. Prendi un attimo, un frammento di vita, e speri che diventi eterno. È il patto di Faust con Mefistofele. Ti vendo l’anima se il mio nome resta immortale. È una truffa, ma poeti e artisti vari ci cascano spesso. Pensa allo stesso Goethe o a Foscolo, con I sepolcri. «E tu onore di pianti, Ettore, avrai, ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finché il Sole risplenderà su le sciagure umane». Solo che prima era una consolazione per pochi spiriti eterni, ora è la ribellione delle masse. Click ergo sum. Una foto su Facebook o Instagram come sepolcro.
– Cazzate. Io parlavo di felicità. Nunc est bibendum. Ora bisogna bere. Orazio. Ma che ne sa un astemio della felicità. È quella che cerco e mi accontento di poco. Roba da pigri, che non hanno alcuna intenzione di attraversare il deserto alla ricerca di un’improbabile città degli immortali. Non mi piace invecchiare in eterno.
– C’è chi ha cercato l’eterna giovinezza.
– Ecco un’altra delle tue storie del cazzo.
– Gilgamesh, il sumero, quinto re della I dinastia della città sumerica di Uruk.
– Mi mancava.
– Gilgamesh si mette in viaggio per raggiungere gli estremi confini del mondo.
– Mai sotto casa, eh.
– Qui chiede aiuto all’unico uomo immortale: Utnapishtim.
– Ma questi nomi te li inventi o li trovi su Google?
– Aveva salvato nell’arca tutte le specie viventi e l’uomo dal diluvio universale.
– Pure il Minollo?
– Sì perfino il Minollo.
– Allora non è Utnapissing. È Noè.
– Utnapishtim. Tipo Noè, ma più vecchio. Un Noè mesopotamico. Grazie alla sua impresa aveva ottenuto la vita eterna. Sottopone Gilgamesh a una prova: restare sveglio per sei giorni e sette notti.
– Allora è Yoda, il maestro Jedi.
– Simile. «Provare no! Fare, o non fare. Non c’è provare». Il nostro eroe, purtroppo, si addormenta. Fallisce. Qui però entra in gioco la moglie dell’eterno.
– Ma è sposato? E la moglie muore o non muore?
– Non rompere. La signora dice al marito di non essere così fiscale e lo convince a rivelare il “segreto degli dei”, dove si trova la pianta dell’eterna gioventù, meglio conosciuta come “pianta dell’irrequietezza”.
– Meglio conosciuta da chi?
– Da Utnapishtim e dalla moglie. È in fondo al mare.
– Come la Sirenetta?
– «Vi è una pianta, le cui radici sono simili a un rovo, le cui spine, come quelle di una rosa, pungeranno le tue mani».
– La trova?
– Sì, ma mentre vagava nel deserto per tornare a casa vede un pozzo e, assetato, si sporge per bere. Solo che appoggia la pianta per terra e proprio in quel momento passa un serpente. La annusa e se la mangia.
– E che cacchio.
– Il serpente immediatamente comincia a perdere la sua vecchia pelle.
– Ladro.
– Ora però sappiamo che Utnapishtim aveva fatto un po’ di confusione.
– Cioè?
– Non era una pianta, ma una Turritopsis Nutricula. Un idrozoo della famiglia Oceanidae.
– Vabbè…
– Una medusa immortale. Viene dai Caraibi ma si sta diffondendo in tutti i mari. Ha una forma a campana dal diametro di appena 5 millimetri.
– Immortale ma nana. Invecchiano?
– Si, ma arrivate a un certo punto tornano indietro nel tempo, fino all’infanzia. È come accade per Il curioso caso di Benjamin Button di Francis Scott Fitzgerald. Ricominciano la vita da zero. Non hanno cervello, non hanno stomaco, nessun sistema respiratorio e circolatorio. Eppure vivono in eterno.
– Eternità sprecata. Ma si mangiano?
– C’è chi dice che un giorno potrebbero essere utili per arrivare a una sorta di “pillola dell’immortalità”.
– Allora niente messicano. Sushi di medusa. Ma poi che fine ha fatto Marco Flaminio Rufo? Me lo racconti mentre assaporo l’eternità.
– Che schifo. Rufo è diventato immortale. Solo che era una noia. Quegli esseri abbrutiti che vagavano di caverna in caverna erano loro, e tra questi c’era perfino Omero. Avevano fatto e visto tutto e ormai giudicavano vana ogni impresa, tanto da sopravvivere in eterno in assorti a contemplare il nulla. Così il tribuno viaggiò alla ricerca del fiume della morte.
– E lo trovò?
– Certo. Il numero dei fiumi non è infinito. Un viaggiatore immortale che percorra il mondo finirà, un giorno, con l’aver bevuto da tutti. Questa storia finisce qui, con le parole che Jorge Luis Borges fa pronunciare al suo eroe, ora che è tornato mortale. «Io sono stato Omero; tra breve sarò Nessuno, come Ulisse, tra breve, sarò tutti: sarò morto».