Il bordello (politico) di Dante
C’è un personaggio che da anni mi appassiona. Si chiama Sordello da Goito. È una stella della lirica provenzale. Non è un trovatore come tanti. È uno che gira l’Europa e raccoglie successi. Sono lì le origini della letteratura europea e occidentale, quando le corti medievali mettono un vestito pop e la poesia abbandona il latino e sceglie il volgare, la lingua parlata e bastarda di un mondo in cerca di identità, con le parole che cercano il ritmo nella musica e le storie sono lunghe canzoni dove si parla di amori, di seduzione, di gesta eroiche e satire politiche, di belle donne e cavalieri, di servi corrotti e sovrani meschini.
Le rime sono organizzate in stanze. In occitano si chiamano coblas e sono un po’ come i flow del rap. Le coblas possono essere singularis quando ognuna presenta rime diverse, doblas quando le rime si presentano uguali ogni due strofe, ternas quando le stesse rime si presentano in tre strofe, capcaudadas quando la rima di ogni strofa è anche la prima che apre quella successiva, retrogradadas quando la rima viene invertita in ogni stanza. Ci sono poi le coblas capfinidas, quelle strofe in cui una rima o una parola che chiude la stanza ricompare nel primo verso di quella successiva. I trovatori mettono in musica e parole la vita e ciò che ci gira intorno. Quando non hanno altro da fare si sfidano tra di loro, con invettive e prese per i fondelli, scambi di strofe e insulti. Tenzoni. È nota quella di Sordello con Aimeric de Pegulhan, figlio di un mercante di stoffe e famoso per le sue troppe amanti. Aimeric accusa Sordello di essere poco più di un giullare e di non pagare i debiti di gioco. Non è per questo, però, che il buon Sordello si ritrova in purgatorio.
È una domenica di Pasqua, qui il tempo ricomincia a scorrere, una decina di minuti dopo mezzogiorno. È il 10 aprile del 1300. Questo viaggio nel mondo dei morti segna un nuovo approdo. Qui davanti c’è una cima che sale lunga e dritta e occupa buona parte di quella che sembra un’isola. Dante e il suo duca, il maestro che lo accompagna, camminano lungo la spiaggia. Virgilio scantona la folla di anime che li circonda. Non hanno mai visto un vivente da queste parti e chiedono, si sbracciano, elemosinano preghiere, suffragi e sconti di pena. E’ l’Antipurgatorio. Dante si sente come il vincitore del gioco della zara, dei dadi, che si ritrova a fare i conti con i postulanti, mentre lo sconfitto se ne sta da solo a ragionare sul fato e sui propri errori. Deve essere più o meno il sentimento che pesa sul cuore di questo personaggio burbero, altero e imbronciato, che se ne sta in disparte al confine di chi ha abbondonato la vita per morte violenta e la valletta dei principi negligenti. Quest’uomo non appartiene né agli uni né agli altri. La sua sconfitta è più esistenziale che concreta. È quel non aver mai fatto davvero pace con il mondo, quel senso di insoddisfazione perenne che nulla può sanare. Neppure la morte. Dante è incuriosito e con Virgilio sempre al fianco si avvicina. L’uomo ha un suo fascino, da artista, si direbbe, da cane sciolto, uno pronto a difendere la nomea di nobiltà d’animo ma con i panni del ricco giullare o del menestrello. Nella sua vita deve aver avuto successo e soldi, un feudo da amministrare per la vecchiaia e un certo rancore per il potere che ha bazzicato, ma il vestito, per ragioni di scena, resta quello del giovanotto di strada delle origini. Quando si accorge che Virgilio parla il suo dialetto la sua faccia si apre e quasi si inginocchia. Non sa ancora che quello che ha davanti non solo è un conterraneo, ma il più grande di tutti i mantovani. L’uomo in disparte è appunto Sordello da Goito e per brevità potete chiamarlo artista.
È proprio lui a imbeccare l’invettiva di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!». È il canto sesto del Purgatorio. Tutto comincia con una domanda, buttata lì quasi per caso. È messer Alighieri che chiede a Sordello: «Erano migliori i potenti del tuo tempo o quelli del mio?». Sordello sembra non avere dubbi: «I miei erano pessimi, ma i tuoi di più». Da lì Dante parte per maledire questa Italia fiacca e mercenaria, senza dignità e morale. È lo sfogo di un uomo di mezz’età che quasi non spera più.
Chissà se c’è un posto dove gli sfiniti trovano pace? Questa è la domanda di Giobbe, ma la risposta è rimasta indeterminata e non è detto che sia un male. Se lo chiedeva anche Dante, con il passare degli anni sempre più disincantato, con le cicatrici sul corpo e nel cuore da contare una a una, mentre consumava la sua vita da esule, amareggiato, rancoroso, invecchiato. Non ha mai smesso di interrogarsi sul senso della politica. Lo fa, a lungo, anche nella Commedia. Non solo nei sesti canti di Inferno, Purgatorio e Paradiso. Quell’ansia riappare ogni volta che si ferma a considerare il potere, la comunità, il bene universale. La politica dovrebbe essere un atto di fiducia verso l’altro. Solo che spesso, troppo spesso, non è così. È diffidenza, conflitto, interesse di parte, ricerca ostinata di un nemico. Per sapere chi sei ti serve qualcuno da odiare. È un istinto. Il nemico ti rassicura, ti fa sentire vivo. La fiducia invece è innaturale. È un salto etico. È sovrumana. Non ha nulla di razionale. Per posarla a terra c’è bisogno di un passaggio, una stretta di mano, un patto, un contratto. Serve il sigillo di un garante. È da qui che nasce la comunità. È la legge e qualcuno che la incarni. Dante nel suo viaggio si confronta con tre personaggi ed è con loro che chiacchiera sulle miserie e le virtù della politica. Sono Ciacco, Sordello e Giustiniano. Non è solo un passaggio dal particolare all’universale. Non è solo Firenze, Italia e Occidente. È la speranza di Dante di trovare una risposta alle promesse mancate della politica. Come si supera il conflitto? C’è un antidoto al decadimento morale? Non saranno i guelfi o i ghibellini a salvarti. Non saranno le loro bandiere, perché in nome del Papa o dell’imperatore ognuno di loro farà i propri interessi. Quei simboli verranno svenduti, sfregiati, svergognati. Non hanno nelle loro mani nulla di universale, ma servono solo la parte. Dante cerca rifugio in qualcosa di antico, di perduto e di più grande. È il simbolo dell’Aquila e qui forse si illude. Sceglie come imperatore simbolo Giustiniano, saggio e misurato. È l’uomo della legge, che scrive il codice civile. È l’uomo che sbaglia, ma rinsavisce. È il sovrano che getta le basi di uno Stato laico ma che riconosce i valori della fede cristiana. È ragione e metafisica. L’impero è l’istituzione che ti permette di andare oltre gli interessi miseri e meschini. L’impero allarga gli orizzonti e garantisce a ogni individuo il rispetto dei propri diritti. L’impero è una visione del mondo. L’impero non è però il Leviatano. Non baratta la sicurezza con la libertà. Il monarca universale è colui che permette agli uomini il conseguimento dei loro fini e il libero arbitrio. Dante sogna il diritto di cercare la propria felicità. È da quando ha lasciato Firenze che pensa di averne perso per sempre le tracce.
Non si conosce neppure il suo vero nome. Se ne sta nel fango, grasso e deforme, e fa fatica a sollevare il corpo. Dante lo incrocia nel terzo cerchio dell’inferno, lì dove stanno i golosi, e non lo riconosce. È lui che si presenta: voi cittadini mi chiamavate Ciacco. Ciacco come una bestemmia. Ciacco il porco. Ciacco che no, non gli bastava mai.
Dante ha solo sfiorato Ciacco. È il passato. È della generazione del padre e come amministratore della città lo condanna. Non infierisce, però. Ne parla quasi con misericordia. Se lo ritroviamo nel sesto canto dell’Inferno, la prima apertura politica della Divina Commedia, è per puntare l’indice contro altro. C’è qualcosa di più insidioso che avvelena la vita pubblica di Firenze. È qualcosa che ancora ci appartiene. È il gioco binario delle due fazioni: guelfi e ghibellini e poi bianchi e neri. L’uno o l’altro, senza riconoscersi, e chi vince prende tutto e chi perde è fuori. Non c’è diritto di cittadinanza per gli sconfitti. C’è solo l’esilio o, se non ti affretti a lasciare i confini, la condanna a morte. L’esilio che sembra un atto di pietà e invece fa di te un ramingo, un senza patria, un miserabile senza più orgoglio, costretto a vivere della benevolenza o del capriccio altrui. È ciò che Dante ha maledetto per tutti i suoi anni.
La sua Firenze è in metamorfosi. È ricca. È dinamica. È moderna. È città di banche e mercanti, che fanno base lì, ma si muovono in Europa e nel Mediterraneo, con filiali e alleanze che tracciano le strade del mondo. Il cuore di questo sistema è il fiorino. È la moneta di ventiquattro carati d’oro che su una faccia riproduce il giglio e sull’altra il volto di Giovanni Battista. Non è più la Firenze di cento anni prima, quello circoscritta dentro le mura antiche. Allora a contare erano solo i magnates, i “grandi”, come venivano chiamati in volgare. Erano le famiglie importanti, quelli di cui conoscevi i nonni dei nonni. Abitavano i palazzi con torri, avevano terre e rendite, clientele e guardie private. In guerra potevano permettersi i cavalli e in pace si vestivano da cavalieri, rimarcando il loro stato sociale. Poi sono arrivati i nuovi ricchi, i nuovi potenti. I ghibellini, che tifano l’imperatore, sono sconfitti. È la prima diaspora. È l’accusa di eresia che colpisce Farinata degli Uberti. Ma cosa divide i vincitori? I guelfi sono bianchi e neri per un conflitto di aristocrazie, la nuova contro la vecchia. I Cerchi, famiglia emergente, sono bianchi. I Donati sono neri. I Cerchi si vestono da innovatori e rivendicano le ragioni del popolo. Il popolo, però, non sono loro. I Donati sono prepotenti e disprezzano chiunque non sia alla loro altezza. Quasi nessuno. Gli Alighieri in questa storia cercano un posto dove non stare troppo scomodi. Sono conosciuti, bene o male rispettati, ma pesano fino a un certo punto. Dante si schiera con i bianchi. Non è che ami particolarmente i Cerchi. Trova ancora più irritanti i Donati. Non è di certo un’estremista, ma si assume le sue responsabilità. Se sta lì è per l’affetto che lo lega a Guido Cavalcanti, ma finirà per deludere perfino lui. Sarà proprio Ciacco a profetizzare nella finzione letteraria la caduta dei bianchi e il suo esilio. È di fatto la fine del Dante politico di professione. Non sarà neppure più un uomo di parte. Sarà un guelfo senza Papa e un bianco senza famiglia. La sua vendetta in fondo è proprio la Commedia. Tutti quelli che lo hanno deluso o tradito finiranno all’Inferno e Bonifacio VIII, il Pontefice che cambia le sorti di Firenze, verrà dannato per sempre nella memoria dei posteri.