La morte di un giudice e la giustizia dei Giusti
Il suicidio del giudice Giancarlo Giusti, condannato (ancora in via non definitiva) ma ai domiciliari con l’accusa di collusione con la ‘ndrangheta, lascia strascichi pesanti. L’ex gip del tribunale di Palmi trovato impiccato nella sua casa di Montepaone (Catanzaro) era stato coinvolto in due inchieste delle Dda di Milano e Catanzaro su suoi presunti rapporti con alcuni esponenti della ’ndrangheta, di cui sarebbe stato a libro paga. Avrebbe ricevuto 120mila euro per favorire, come giudice Riesame di Reggio Calabria, la scarcerazione di tre elementi di spicco della cosca Bellocco, mentre l’amicizia con un presunto boss calabrese gli avrebbe procurato donne facili. Perché, come si legge in un’ordinanza di custodia cautelare, Giusti era «ossessionato dal sesso, dai divertimenti, dagli affari e dalle conoscenze utili».
Resta famosa la sua intercettazione pronunciata al telefono con Giulio Lampada («lo consideravo un amico»), che gli avrebbe procurato delle donnine allegre con cui allietare le sue serate milanesi: «Non hai capito chi sono io… sono una tomba, peggio di … ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Incontri tutti registrati in una sorta di «diario informatico» sequestrato dai magistrati milanesi guidati da Ilda Boccassini: «Venerdì – scriveva l’ex giudice – notte brava con (…) Simona e Alessandra. Grande amore nella casa di Gregorio», eccetera. Per i rapporti con Lampada l’ex magistrato era stato condannato a quattro anni di reclusione e sospeso dalle funzioni dal Csm. L’anno scorso il nuovo arresto per corruzione in atti giudiziari, aggravata dal metodo mafioso. Accuse pesantissime, tanto che il giudice aveva anche tentato il suicidio in carcere. Eppure, nonostante il pericoloso precedente, gli erano stati concessi i domiciliari.
È stato trovato in mattinata, anche se la notizia si è diffusa solo nel primo pomeriggio. Giusti ha usato una corda con la quale si è impiccato nel garage dell’appartamento dove viveva da solo – dopo la dolorosa separazione dalla moglie – ed è stato ritrovato da un suo congiunto, probabilmente preoccupato. La salma è ora a disposizione dell’autorità giudiziaria, con il sostituto procuratore Fabiana Rapino che dovrà decidere se fissare l’autopsia.
La polemica in queste ore divampa. Difficile che nessuno sapesse che il giudice viveva da solo, né si poteva pensare che Giusti – che si è sempre professato innocente («Sono stato leggero. Mi pento di aver infangato la toga, ma non sono un corrotto») – non ci avrebbe provato. Nell’ultima intervista concessa a Klaus Davi aveva detto chiaramente: «Sono rovinato, che senso ha vivere? Non ho più un lavoro. Non mi aspettavo una condanna della Suprema Corte così dura. Vivo in Calabria, non è facile. Se ce la farò, bene, se no sarò uno fra i tanti che smetterà di soffrire». E sui suoi rapporti con i Bellocco aveva rivendicato la sua estraneità: «Mai emerso che io abbia avuto un euro, quei 120mila euro erano i miei risparmi di una vita per acquistare un appartamento in via di costruzione alle porte di Milano. Anche sulla frase del «mafioso» Giusti si era difeso parlando di «frase estrapolata nell’ambito di un discorso articolato, in un contesto scherzoso».
La morte di Giusti lascia molti punti interrogativi, uno su tutti: è giusto concedere i domiciliari a un uomo che ha ammesso di volerla fare finita? È giustizia, questa?