Mentre l’Antimafia si diverte a scrivere liste di proscrizione tardive (da che pulpito, poi…) la lotta alla ‘ndrangheta si fa sempre più difficile. E i boss se la ridono.

Prendete il caso di Giulio Lampada, il presunto boss di ‘ndrangheta condannato a 14 anni per associazione mafiosa. Dico presunto perché, stando a quello che una volta mi disse un pentito, «i veri boss sono quelli che hanno una pistola in mano e la sanno usare». Lampada non è un boss, e lo dimostra il fatto che i suoi legali siano riusciti a ottenere per il loro assistito gli arresti domiciliari. Scrive il Corriere della Sera riportando la perizia del tribunale del Riesame di Milano: «La sua ulteriore permanenza in luoghi ritenuti persecutori e vissuti come ostili con molte probabilità lo indurrebbe ad azioni rischiose per la sua sopravvivenza». Nella perizia si legge anche che Lampada «sulla base di una personalità di tipo narcisistico-istrionica e dell’esistenza di idee prevalenti e dominanti ha sviluppato una sintomatologia depressiva non riconoscibile come malattia in senso stretto ma come un funzionamento psicopatologico».  Il suo «stato morboso», poi, non è «trattabile» senza «l’adesione al programma di cure» che Lampada invece rifiuta, anche perché si ritiene vittima di una persecuzione. Da qui la concessione dei domiciliari in una villa che il presunto boss ha a Settimo Milanese.

Il suicidio del giudice Giancarlo Giusti ha pesato – non poco, secondo me – sulla vicenda? Probabile. Lampada era stato condannato con lui, con l’ex consigliere regionale della Calabria Franco Morelli e Vincenzo Giglio per presunte infiltrazioni della ’ndrangheta in Lombardia. È un’inchiesta sulla quale, da questo blog, ho più volte sollevato delle obiezioni. Lampada è stato strumento più o meno inconsapevole di un sistema più grande di lui. Le sue manie di grandezza, cristallizzate dalla perizia, sono state la miccia che ha fatto esplodere il bubbone. Non è un boss di ‘ndrangheta ma un imprenditore spregiudicato che ha pensato di approfittare della ‘ndrangheta. E secondo me c’è una bella differenza.

Mi spiace il tono spietato con cui il senatore M5S Michele Giarrusso, componente della peggiore commissione Antimafia che si sia mai vista negli ultimi anni, ha provato a raccattare qualche voto a urne aperte: «Altro che chiuderli in cella e poi buttare la chiave, a Milano hanno scoperto che il carcere è deprimente. E che pensavano fosse? Un villaggio vacanze? I mafiosi, i delinquenti devono stare in carcere, perché è questo che si sono meritati con le proprie malefatte. È una vergogna senza limiti per uno Stato imbelle che, in questo modo, dimostra di non saper combattere la mafia. Interverrò subito – ha concluso Giarrusso – con il ministro della Giustizia Andrea Orlando».

A Giarrusso bisognerebbe ricordare che non si può scendere allo stesso livello di barbarie dei mafiosi per combattere i clan. Il carcere duro a volte funziona, altre volte no, specie con soggetti che hanno una psiche fragile. Non è certo il caso dei boss «veri», che la durezza del 41bis l’hanno messa in conto fin da piccoli. Ma accanirsi su un’imprenditore spregiudicato non serve alla lotta alla mafia.

Un altro suo collega, il democrat Davite Mattiello, invece ha riproposto una questione vera, che anche da queste pagine  abbiamo già sollevato: quella dei testimoni di giustizia, cioè delle vittime di racket, estorsioni, omicidi o rapine che decidono di denunciare la mafia: «Le decisioni della commissione del ministero dell’Interno che se ne occupa sono troppo lente, tardive e poco coordinate, per quasi un mese l’organismo non si è riunito – afferma Mattiello – Io credo alle buone intenzioni e alla competenza del viceministro dell’Interno Filippo Bubbico, ma il problema resta: io penso che rispetto ai testimoni, lo Stato abbia una responsabilità che va oltre l’adempimento formale degli obblighi di legge e che attiene all’effettivo riscatto di una vita libera e dignitosa».

Parole pesanti, alle quali ha risposto lo stesso Bubbico con una scusa che si commenta da sola: «L’ultima riunione è stata fatta tre giorni fa e abbiamo esaurito tutto l’ordine del giorno. È vero, abbiamo avuto tre settimane di sospensione dei lavori, ma perché gli uffici hanno cambiato posto». Tanto che il coordinatore dei testimoni di giustizia della Campania, Luigi Coppola, ha controreplicato: «A che punto è arrivata la commissione sulle nostre assunzioni nella pubblica amministrazione? La burocrazia del Viminale continua a macerare uomini valorosi che con fiducia si sono affidati allo Stato, non bastano le parole né le buone intenzioni». E neanche uno Stato che fa la faccia feroce davanti a un povero diavolo.

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