C’è anche tanta ‘ndrangheta (e non poteva andare diversamente) nel secondo filone di Mafia Capitale (a proposito: cosa aspettano a sciogliere il Comune di Roma? Mah) che ha portato a 44 arresti. Si parla di Gianni Alemanno, che secondo le indagini si sarebbe rivolto a Salvatore Buzzi, capo della coop «29 Giugno», dominus dell’organizzazione insieme all’ex Nar Massimo Carminati, per avere qualche voto alle Europee del 2014. Si sa che Buzzi avrebbe richiesto a Giovanni Campenì del clan Mancuso di Limbadi qualche voto. Ha ragione l’ex sindaco di Roma a dire che – al netto della richiesta alla ‘ndrangheta fatta da Buzzi, non da Alemanno – nei duecomuni di riferimento del clan Mancuso ha preso pochi voti: 5 su 981 votanti a Limbadi e 14 su 1901votanti a Nicotera.Certo, il clan ha ramificazioni ovunque e dimostrare quanti voti effettivamente la famiglia Mancuso avrebbe spostato nel Lazio è più difficile, ma tant’è.

Non è la prima volta che Alemanno si trova sfiorato da un’inchiesta di ‘ndrangheta: è già successo con l’ex consigliere regionale Francesco Morelli, un suo uomo legato al presunto boss Giulio Lampada e Vincenzo Giglio, entrambi coinvolti nell’inchiesta che ha portato alla condanna del giudice Giancarlo Giusti con l’accusa di aver favorito il clan Valle, morto suicida e su cui, come avevamo scritto, è aperto un fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio da parte della Procura di Catanzaro. A confermarlo è l’avvocato Giuseppe Femia, uno dei legali dell’ ex giudice, ospite del programma KlausCondicio: «L’istigazione al suicidio è un’ipotesi che deve essere verificata. È certo che da un punto di vista psicologico c’è stato un oggettivo accanimento contro un soggetto molto provato attraverso misure che potevano essere anche evitate e che non escludo abbiano avuto un impatto psicologico ed emotivo forte». Sui rapporti tra Lampada e Giusti non ci sono dubbi: «Ma il fatto di curare rapporti con istituzioni e pubbliche relazioni nell’ambito di alcuni settori come per esempio il gioco legale, non significa che Lampada fosse un mafioso».

Cosa distingue un imprenditore spregiudicato (ma talmente annientato dal carcere duro da ottenere i domiciliari) da un boss non dovrebbe essere difficile da capire in un’aula giudiziaria. Sono convinto che Lampada sia un fanfarone finito in un gioco più grande di lui ma – anche se resto profondamente garantista – a dirla tutta neanche Buzzi sembrerebbe un boss. Eppure dalle carte degli inquirenti che indagano su Mafia Capitale emerge il profilo di un uomo potente capace di definire «un sistema di relazioni con uomini politici, apparati burocratici, soggetti appartenenti a vario titolo alle istituzioni che costituiscono ilcontatto privilegiato dell’organizzazione che – scrive il gip – non diversamente daaltre consorterie criminali come Cosa nostra o ’ndrangheta, che vantano un pedigree storicamente e giudiziariamente riconosciuto adegua lesue modalità d’azione al tipo di illiceità richiesta e praticata nelsegmento sociale di riferimento, privilegiando metodi corruttivi e collusivirispetto all’uso specializzato della violenza, che comunque rimane unarisorsa sempre a disposizione dell’associazione e di cui, come si è visto,gli interlocutori sono consapevoli».

Mafia Capitale lucrava sugli immigrati e non è un caso – evidentemente – che mentre scattava la retata in Sicilia e in Calabria continuassero gli sbarchi. A Reggio Calabria sono attesi a ore 307 migranti, 253 uomini, 47 donne e 7 minori di varie nazionalità, che appena sbarcati saranno trasferiti in strutture del territorio regionale in base al piano di riparto predisposto dal Viminale. In Sicilia va anche peggio. Perché la ‘ndrangheta si interessa al traffico di uomini? Perché l’immigrato senza identità rappresenta il soldato perfetto: è manovalanza a basso, bassissimo costo da sfruttare per i traffici illeciti, dalla droga alla merce contraffatta.Basti pensare che gli immigrati clandestrini effettivamente rimpatriati sono solo 5.800 mentre quelli espulsi sono 12.154. E gli altri clandestini come fanno a sopravvivere?

Che qualcosa si muova e che la torta attiri anche altri appetiti lo dimostra l’uccisione del capo della comunità rom di Catanzaro Domenico Bevilacqua, detto «Toro seduto», ferito a 56 anni in un agguato nel quartiere Aranceto con alcune coltellate e , dopo una breve fuga, ammazzato con alcuni colpi di pistola calibro 9 alla testa. Bevilacqua era considerato dai pm il referente della ’ndrangheta nella gestione delle attività illegali, soprattutto droga e estorsioni. La sua morte è un segnale pericoloso, perché quando la ‘ndrangheta usa il linguaggio del piombo vuol dire che il rischio di una faida è vicino. Alla ‘ndrangheta non piace ammazzare. Il sangue attira gli sbirri e i giornalisti, fa rumore, riaccende i riflettori sulla Calabria.

A proposito di riflettori. Il leader della Lega Nord Matteo Salvini su Repubblica ha sparato un paio di frasi a effetto su Platì, il comune simbolo dell’enclave ‘ndranghetista nel cuore dell’Aspromonte ancora commissariato. «Ho appreso tardi che a Platì nessuno ha presentato la lista per paura della mafia locale. Se l’avessi saputo ci avrei messo la faccia. La prossima volta la Lega va a Platì». Lanciare il sasso nello stagno serve a fare rumore, ma ai pezzi grossi del Pd la cosa ha dato fastidio. Anche i vertici democrat avevano fatto la loro sparata su Platì, ovviamente fuori tempo massimo e facendo gli gnorri prima della presentazione delle liste, poi giurando e spergiurando che la prossima volta il Pd sarebbe sceso in campo. Adesso che la battaglia a Platì si annuncia interessante – quanti volti “leghisti” ci sono a Platì? – il segretario regionale del Pd Ernesto Magorno tuona:  «Platì non ha alcun bisogno di Matteo Salvini e al leader della Lega chiedo di avere rispetto per i cittadini di una comunità che vuole con coraggio riscattarsi e non diventare oggetto della sua propaganda mediatica superficiale e inopportuna». Peccato che rispettare Platì significa presentare una lista, cosa che il Pd non ha fatto. Un bel tacer non fu mai scritto…

Ps: al componente della commissione Antimafia Pd Davide Mattiello l’intervista concessa a Italia Oggi da Nicola Gratteri sui testimoni di giustizia non è piaciuta. In particolare il passaggio in cui Gratteri sostiene che la gestione dei collaboratori di giustiziadebba passare alla polizia penitenziaria «per evitare il rischio di una gestione quanto meno farraginosa, permeabile a comportamenti opachi, basati su relazioni privilegiate tra appartenenti alle forze di polizia che gestiscono il sistema di protezione dei testimoni sotto il Viminale». Sui rapporti tra servizi segreti, boss in galera e pentiti Mattiello ha scoperto l’acqua calda. Dovrebbe leggersi le carte del Copasir sul cosiddetto «protocollo Farfalla», l’operazione che sarebbe servita per raccogliere informazioni da detenuti in regime di carcere duro nel biennio 2003-2004 gestita dal Sisde che però – a detta del Copasir – ha letteralmente “sbracato”. Il rapporto tra 007 deviati e ‘boss calabresi è la chiave per capire perché la ‘ndrangheta è diventata invincibile. E Gratteri lo sa benissimo. Studia, Mattiello, studia…

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