Finanziamenti elettorali, svolta negli Usa
Se un riccone americano vorrà donare un miliardo di dollari (o anche di più) a un partito, per aiutarlo a conquistare la Casa bianca, potrà farlo. La svolta arriva dopo l’ultima sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha dichiarato incostituzionali i limiti previsti per le donazioni individuali alle campagne politiche e ai comitati elettorali. Il motivo: quei paletti violano il primo emendamento della Costituzione americana, quello che garantisce la libertà di parola. I cittadini degli Stati Uniti potranno versare il il loro contributo ai candidati al Congresso e alla Casa Bianca, nonché ai partiti e ai Pac (comitati elettorali teoricamente indipendenti), senza preoccuparsi di superare il limite per le donazioni complessive, che era stato fissato a 123.200 dollari per il 2013 e il 2014.
Restano comunque in vigore alcune limitazioni. Ad esempio questo: il limite sui contributi individuali ai candidati alla presidenza o al Congresso, pari a 2.600 dollari per elezione: ma usando dei prestanome il limite si può raggirare, così come donando cifre più alte complessivamente a tutti i candidati. Inoltre i riceventi – sia che si tratti di individui che di gruppi – dovranno continuare a rendere pubbliche le informazioni sui propri sostenitori.
Qualche anno fa c’era stata una prima liberalizzazione. Con una decisione del 2010, nota come Citizens United, i giudici della Corte suprema avevano abolito i limiti sulle donazioni indipendenti da parte di società e sindacati. L’ultimo verdetto ha diviso profondamente i giudici liberal e quelli conservatori. Secondo questi ultimi i limiti posti ai contributi non aiutavano a prevenire la corruzione e invece violavano il diritto alla libertà di espressione dei cittadini. Per il giudice Stephen Breyer, un liberal, la decisione invece “sminuisce l’importanza di proteggere l’integrità politica delle istituzioni governative“.
Molto soddisfatto lo speaker repubblicano John Boehner: “I giudici hanno difeso la libertà di parola. Tutti voi – ha detto ai cronisti al Congresso – avete la libertà di scrivere ciò che si volete. Così i donatori dovrebbero avere la libertà di versare quello che vogliono. Io sono sempre dalla parte della libertà, complimenti alla Corte”.
Il New York Times sottolinea che la maggioranza della Corte “si è dimostrata fortemente scettica circa il ruolo di controllo della partecipazione politica esercitato dallo Stato”. Il giudice John G. Roberts Jr ha sottolineato che “nella nostra democrazia non esiste diritto più basilare della partecipazione all’elezione dei nostri leader politici”. Per il professor Nathaniel Persily (università di Stanford), lo sdegno con cui gran parte dei commentatori ha reagito alla sentenza è ingiustificato, e la decisione rappresenta invece una soluzione almeno parziale agli “effetti polarizzanti che il denaro ha sulla politica”. Secondo Persily “un sistema dove gli individui possono donare una quantità nota a un numero illimitato di politici è preferibile a un sistema dove la maggior parte del finanziamento privato è affidato ai Super pac e ad altri gruppi privi di alcun requisito di trasparenza” in merito alla loro composizione interna e alla provenienza dei fondi. Inoltre, come sottolinea Persily, la sentenza ha riaffermato che “la corruzione è un concetto circoscritto, riferito alla sola fattispecie per la quale un politico ricorra alle prerogative del suo ruolo per concedere un favore personale al suo finanziatore (la cosiddetta corruzione quid pro quo)”. Molto duro, invece, il commento del Washington Post, secondo cui la sentenza ha “abbattuto un’altra legge tesa a contenere la corruzione e l’influenza dei grandi capitali sulla politica nazionale”.
I giudici della Corte suprema (cinque contro quattro) hanno deciso che la libertà di espressione viene prima del rischio di corruzione.
Per approfondire: The New York Times (1– 2) – Washington Post (1 – 2) – Politico (1 – 2)