Il privilegio razziale per potersi iscrivere all’università è un’arma a doppio taglio. Non dovrebbe essere la pigmentazione della pelle a decidere se uno abbia il diritto, o meno, di studiare. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso di porre fine all’affirmative action (discriminazione positiva), che punta ad attenuare le disparità economiche e sociali tra i gruppi etnici riservando una quota di posti alle categorie (o gruppi etnici) più svantaggiati. La Corte Suprema ha ritenuto di porre fine a queste politiche, ritenute incostituzionali. Di fatto tutti sono uguali, bianchi, neri o gialli, dunque deve (o dovrebbe) contare solo il merito. Ma, va da sé, chi parte da condizioni svantaggiate, frequenta scuole pessime, non ha il minimo sostegno dalla famiglia e vive in un ambiente degradato (per non dire peggio), quali effettive chance di inclusione sociale potrà mai avere? Su quale ascensore sociale potrà mai salire?

La decisione della Corte Suprema divide gli Stati Uniti. I conservatori sono felici, i progressisti (ovviamente) protestano. Tra questi ultimi il presidente Joe Biden e l’ex presidente Barack Obama. C’è da dire che lo stesso Obama in passato aveva giudicato la legge imperfetta, pur considerandola necessaria. L’ex presidente Donald Trump invece ha esultato, parlando di “grande giorno per l’America”.

Ma nel concreto dopo questa decisione della Corte Suprema ora cosa cambia? Dovranno essere riscritti i criteri di ammissione in tutta l’istruzione superiore.

Negli Stati Uniti si iniziò a parlare di affirmative action con il presidente John F. Kennedy, che nel 1961 firmò un ordine esecutivo con il quale gli appaltatori del governo “intraprendevano un’azione positiva per garantire che i candidati siano impiegati e che i dipendenti siano trattati [equamente] durante l’impiego, indipendentemente dalla loro razza, credo, colore o origine nazionale”. Quattro anni dopo Lyndon Johnson con un altro ordine esecutivo chiese ai datori di lavoro governativi di “assumere indipendentemente da razza, religione e origine nazionale”, nonché di “intraprendere azioni positive per garantire che i candidati siano assunti e che i dipendenti siano trattati durante l’impiego, indipendentemente dalla loro razza, colore, religione, sesso o origine nazionale”. Principi che oggi sembrano scontati, ma che in quegli anni non lo erano affatto.

C’è da dire, però, che un sistema congenato per compensare gli effetti delle discriminazioni può finire per produrne di nuove. Escludere uno studente bianco bravo per dare spazio ad uno afroamericano meno bravo non è discriminatorio, oltre che ingiusto? C’è chi risponde così: senza quote non ci sarà più la possibilità che gli studenti neri ottengano l’ammissione negli istituti più selettivi. Il tema è aperto.

Il presidente della Corte suprema, John Roberts, ha spiegato la decisione in questo modo: il sistema “non può durare per sempre” ed “equivale ad una discriminazione incostituzionale contro altri”. In altre parole, non siamo più negli anni Sessanta…

 

 

Foto: Cnn

 

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