Esattamente tre decenni fa, il 21 maggio 1991, la quiete della Divinity School dell’Università di Chicago veniva turbata da un colpo di pistola. Il poco più che quarantenne Ioan Petru Culianu, geniale allievo ed erede letterario di Mircea Eliade, veniva ucciso da una mano tutt’ora ignota. Un omicidio politico, come documentato da Ted Anton nel libro-inchiesta Eros, magia e l’omicidio del professor Culianu (Settimo Sigillo, 2007), che toglieva la vita a un geniale studioso capace di cimentarsi con mondi diversi, dal giornalismo alla narrativa, esplorando la letteratura dell’Immaginario e Jorge Luis Borges, la metafisica di Twin Peaks e Giordano Bruno, la gnosi e i dualismi, capace di organizzare conferenze internazionali e la sera stessa fare i Tarocchi ad amici e studenti, scrivere di sciamanesimo e fisica quantistica, politica e cyberspazio… Insomma, quel 21 maggio di trent’anni fa, la storia si prese una terribile rivincita sull’immaginario. Per riaprire la partita, a tre decenni da quei fatti enigmatici, sono state organizzate varie iniziative, tra cui il numero monografico della rivista «Antarès», Ioan Petru Culianu, Argonauta della Quarta Dimensione. Curato da Horia Corneliu Cicortaș, Roberta Moretti e Andrea Scarabelli, raccoglie testimonianze e saggi, nonché svariati inediti, carteggi e interviste. Per ricordare lo studioso, pubblichiamo qui un suo testo inedito in lingua italiana, uscito sulla rivista «Lumea liberă» (n. 110, 10 novembre 1990) e ora raccolto nel volume Păcatul împotriva spiritului (Polirom, Iași 2005). La traduzione è di Igor Tavilla, che ringraziamo per averne concesso la pubblicazione su questo blog, nell’auspicio che tutte queste iniziative possano segnare l’inizio di una nuova stagione negli studi italiani su IPC, demiurgo dell’Immaginario ed esploratore dei mondi mentali.

A.S.

Nel 1989, bicentenario della Rivoluzione francese del 1789, il marxismo ha perso anche l’ultima battaglia: la battaglia ideologica nel Paese che era stato, forse ancor più dell’Italia, il bastione dell’ortodossia comunista nell’Europa occidentale. L’uomo che ha assaporato la vittoria è stato lo storico François Furet, l’eroe del giorno.

Furet era finito al centro delle polemiche riguardanti la Rivoluzione francese fin dal 1978, dopo essere stato bersagliato, per molti anni, dagli attacchi degli storici marxisti. Eppure, se la sua voce era isolata fino a poco tempo fa, nel 1989 la posizione espressa nella sua opera Penser la Révolution Française (1978) ha smesso di essere minoritaria. Attraverso una resistenza durata dieci anni, in questi ultimi Furet è riuscito a rivoluzionare la Rivoluzione francese e sconfiggere l’armata reazionaria dei teologi marxisti. Solo qualche anno fa, una vittoria simile sarebbe sembrata tanto impossibile quanto la caduta del Muro di Berlino. E forse, dopotutto, “il crollo” della Rivoluzione francese è solo uno dei molteplici effetti del crollo del muro. Infatti, come lo stesso Furet nota nella sua acuta opera, la Rivoluzione francese assume un’importanza particolare per la sua associazione con la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917, a cui accorda una certa legittimità.

Nel rigido sistema di interpretazione leninista-stalinista della storia, usato dalla maggioranza degli storici francesi del secondo dopoguerra, la Rivoluzione francese era “la rivoluzione borghese-democratica” e, come tale, precedeva necessariamente la rivoluzione finale, quella comunista. Nelle teorie sovietiche, la Rivoluzione francese giocava un ruolo unico ed insostituibile. Ma la Rivoluzione francese è stata davvero una “rivoluzione borghese-democratica”? Il grande teologo marxista Albert Soboul, il maggiore critico di Furet, riempie mille pagine per dimostrare come la rivoluzione sia un’“esplosione delle contraddizioni” di classe accumulate per oltre mille anni dalla “società feudale” francese. In altre parole, secondo la Bibbia marxista, la rivoluzione doveva scoppiare necessariamente per lasciar spazio ai rapporti capitalisti e al modo di produzione capitalista.

Contro la tesi marxista, Furet mostra quanto segue: anzitutto, la società francese di fine Settecento non era più “feudale”, ma basata su un complesso sistema di opposizione in cui l’istituto monarchico garantiva mobilità sociale e scendeva a patti non con i proprietari terrieri (affittuari), ma con la borghesia.

Riprendendo la tesi di Alexis de Tocqueville, Furet mostra come la Rivoluzione, lungi dall’interrompere il programma di riforme previsto dalla monarchia, non faccia che continuarlo. In questo senso, la Rivoluzione sembra non esser servita a nulla, dal momento che fa parte di un processo di trasformazione della società francese in atto da cent’anni. Per spiegare lo scoppio della Rivoluzione, tuttavia, Furet ricorre alla tesi di uno storico dimenticato da tutti, il giovane Augustin Cochin, che perse la vita a quarant’anni durante la Prima guerra mondiale. Secondo Cochin, la Rivoluzione è frutto degli innumerevoli club politico-intellettuali dell’Illuminismo, che chiama sociétés de pensée, “società di pensiero”. Di queste fanno parte non solo i massoni, ma anche altre innumerevoli società letterarie, eccetera, spesso semi-clandestine. Secondo Cochin, la caratteristica principale di queste società è l’abolizione di qualsiasi distinzione di classe. I loro membri si riuniscono per accordarsi su un sistema di governo ottimale; una volta raggiunto questo accordo razionale, cominciano a metterlo in pratica. L’idea di queste società è agli antipodi dell’idea di “lotta di classe”; il loro obiettivo è la realizzazione di un utopico “bene comune”.

Ma chi ha compiuto la Rivoluzione? Anche qui, Furet si discosta da tutte le interpretazioni accettate, rifiutandosi di optare per un eroe o un altro – Robespierre contro Danton, ad esempio, o viceversa. Secondo lui, la Rivoluzione è dotata di un meccanismo impersonale e i suoi capi non sono altro che marionette manovrate dalla logica del potere stesso. E questa logica ha a che fare col gruppo che, in un dato momento, ha più possibilità di pretendere di rappresentare quell’entità astratta e misteriosa chiamata “popolo”. Un’entità, di fatto, inesistente e inventata dalle “società di pensiero” illuministe.

Con François Furet si è conclusa la semplificazione marxista. Era ora, dopotutto, che accadesse. Ma è sintomatico che soltanto il fallimento della rivoluzione sovietica abbia portato con sé una nuova ottica nell’interpretazione della Rivoluzione francese, senza cui “la grande rivoluzione” di ottobre non avrebbe avuto alcuna giustificazione…

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