L’effetto boomerang dell’arroganza. Boschi e Renzi dovrebbero prendere lezioni di umiltà, prima ancora che di comunicazione
L’effetto boomerang dell’arroganza.
Boschi e Renzi dovrebbero prendere lezioni di umiltà, prima ancora che di comunicazione
Al voto del referendum di ottobre mancano ancora cinque mesi ma la ministra Maria Elena Boschi si è portata avanti e nel giro di una manciata di giorni ha fatto già fatto il pieno di gaffes e considerazioni imbarazzanti. Ma siamo ancora all’inizio e dopo aver paragonato i sostenitori del NO a Casapound e sentenziato che i partigiani si dividono in veri e falsi – una sorta di selezione della razza partigiana sulla falsariga della selezione della specie di darwiniana memoria – chissà quali altre perle ci riserveranno la ministra e il suo mentore Renzi con il prezioso ausilio dello stratega della comunicazione politica Jim Messina.
Non sembra, almeno per il momento, che il piano del super guru statunitense ingaggiato dal premier per gestire la campagna sul referendum costituzionale abbia dato i suoi frutti. Se le brillanti idee sono quelle di sguinzagliare sul territorio militanti forniti di opuscoli informativi stile Testimoni di Geova e l’uso strumentale dei “padri” della sinistra italiana quali Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao, forse sarebbe stato meglio rispamiarsi i 100 mila dollari della consulenza.
Sulla scelta dei “testimonial a loro insaputa”, per nulla entusiaste di veder chiamati in causa i due storici dirigenti del Partito Comunista Italiano, hanno espresso tutto il loro disappunto le rispettive figlie Bianca Berlinguer e Celeste Ingrao.
La direttrice del TG3, estremamente restia a parlare pubblicamente del padre – per sua stessa ammissione lo ha fatto solo due volte in oltre 30 anni – ha scritto una lettera al Corriere della Sera per contestare l’ associazione fatta dall’ Unità tra il monocameralismo del padre e il referendum costituzionale.
Ancor più dura la reazione di Celeste Ingrao: «Gira da ieri su Facebook una foto di papà con appiccicato sopra un grosso Sì e il simbolo del Pd, prendendo a pretesto frasi pronunciate in tutt’ altro contesto e avendo in mente tutt’ altra riforma. Non so chi siano gli ultras renziani che hanno avuto questa brillante idea. Mi viene però da dirgli che se, come si usa dire ora, bisogna metterci la faccia, ci mettessero la loro e quella dei loro ispiratori».
Per chi come Renzi ha fatto dello storytelling, cioè di una narrazione di sè in chiave positiva e vincente, la propria cifra stilistica, queste dichiarazioni sono contraccolpi d’immagine non indifferenti. Renzi è ossessionato dalla sua immagine pubblica e da una comunicazione autoreferenziale, è un feticista dei social network, un moderno narciso che si riflette nello schermo di un pc.
La comunicazione renziana si basa sui concetti di unidirezionalità e disintermediazione: attraverso le nuove pratiche di interazione sociale legate alle potenzialità di Internet e dei social network di cui il premier fa largo uso – ovvero le dirette streaming su facebook #matteorisponde, e l’uso spasmodico di Twitter – ha eliminato le forme di mediazione presenti nelle dinamiche tradizionali di comunicazione. Non essendo prevista la figura di un giornalista che pone domande, Renzi crea e distribuisce contenuti propri senza nessun tipo di filtro o di contraddittorio, ha la possibilità di presentare il proprio punto di vista e le proprie iniziative caricandoli di positività in modalità incontestabile. Non dice nulla di più che “ciò che appare è buono, ciò che è buono appare”. E’ un’atteggiamento che pretende per principio l’accettazione passiva, che di fatto si ottiene dal comunicare senza replica e con il monopolio di ciò che appare.
Il virtuale diventa reale e il reale virtuale, un rovesciamento di piani e valori che caratterizza la società dell’informazione 2.0; viviamo nell’era dell’informazione, ma non in quella della conoscenza.
Sono due elementi ben differenti: oggi possiamo avere accesso a qualsiasi informazione in meno di 0,18 – secondi tempo medio di ricerca di Google – ma sono pochi coloro che sono disposti ad andare a fondo, a studiare con attenzione e ad apprendere gradualmente le conoscenze senza fermarsi ad un livello superficiale. Senza dubbio il nostro tempo preferisce la rappresentazione alla realtà è lo slogan al contenuto.
Renzi sembra conoscere molto bene queste dinamiche, quel che gli sfugge però è la fondamentale differenza fra informazione e propaganda.
Lo scopo degli operatori dell’informazione, giornalisti in primis, è quello di fornire notizie, ma anche quello di saper raccontare al pubblico l’altra “versione della storia” che non sia un’accettazione passiva di un unico punto di vista veicolato unidirezionalmente.
Per questo la totale disintermediazione, così come la presenza di giornalisti totalmente allineati, può rappresentare un pericolo per la presa di coscienza del cittadino / elettore. Per svolgere correttamente la loro funzione sociale di costruzione della coscienza collettiva i mezzi di comunicazione di massa devono garantire un’informazione completa, varia, critica, attendibile e degna di fiducia.
La propaganda, al contrario sostituisce le opinioni ai fatti, un unico punto di vista al pluralismo delle idee.
Per fortuna non bastano le dirette facebook in cui il premier “risponde” in tempo reale a quesiti posti da utenti precedentemente selezionati dallo staff, non bastano l’allontanamento dal palinsesto del servizio pubblico di voci non allineate con lo storytelling renziano e i cambi di direzione nei quotidiani ad ottenere che la propaganda si sostituisca all’informazione.
Senza contare l’effetto boomerang dell’arroganza: tirare in ballo simboli storici della sinistra quali i partigiani, Berlinguer e Ingrao per lanciare la campagna referendaria “Basta un sì”, è stato un errore di comunicazione davvero grossier che ha creato polemiche e attirato critiche da parte della stessa sinistra. «Come si permette la ministra Boschi di distinguere tra partigiani veri e partigiani finti? Chi crede di essere?». Queste sono parole di Pier Luigi Bersani, non di un esponente dell’opposizone o di un notista politico particolarmente critico. E in quel “chi si crede di essere?” c’ è tutta la forza di un’opinione netta sull’indole della giovane ministra e del suo mentore.