«I nostri processi produttivi, e in effetti l’intera struttura delle nostre economie, si basa sui vecchi prezzi. Produciamo cemento utilizzando petrolio per scaldare il calcare. Utilizziamo aeroplani costruiti dieci anni fa quando i prezzi del petrolio erano bassi. Produciamo utensili per la cucina in alluminio che a loro volta necessitano di un processo di fusione ad alta intensità di energia. Costruiamo città molto estese senza un adeguato trasporto pubblico, e installiamo impianti di aria condizionata. Anche il cosiddetto mondo virtuale richiede impianti di raffreddamento ad alta intensità di energia per i suoi server».

No, non sono le dichiarazioni di intenti di un irriducibile ecologista. E nemmeno le premesse programmatiche di un candidato grillino. Ma le valutazioni sull’andamento del mercato energetico del team di esperti guidati da Giles Keating, responsabile della ricerca per il Private Banking e l’Asset Management di Credit Suisse. L’interrogativo che gli analisti svizzeri si pongono, infatti, riguarda la natura stessa della crisi. È nata da motivazioni finanziarie (esplosione della bolla dei mutui subprime, default della Grecia, ecc.) oppure è stata scatenata dall’aumento dei prezzi petroliferi, iniziata nel 2008 a seguito dei massicci investimenti in infrastrutture e in produzione industriale della Cina?

Volendo essere proprio pignoli, dal punto di vista strettamente economico il dilemma non si pone. Entrambi i problemi sono stati scatenati da un eccesso di liquidità. Cioè dal fiume di denaro a basso costo che la Fed ha stampato (e continua a stampare) per far funzionare l’economia Usa (proprio a partire dal mercato immobiliare). E anche dal denaro a basso costo che la banca centrale cinese ha immesso sul mercato per due motivi: evitare il rafforzamento del renminbi sul dollaro (perché questo frenerebbe le esportazioni) e consentire allo Stato di continuare a investire per colmare il deficit infrastrutturale esistente rispetto ai Paesi industrializzati.

Ma questi sono dibattiti che Wall & Street lascia volentieri agli studiosi e agli analisti. Sono gli effetti, che sentiamo quotidianamente nelle nostre tasche, a preoccuparci. E il messaggio che lancia Keating è emblematico: viviamo in una società che continua a ragionare secondo i vecchi schemi di produzione e consumo. È inutile parlare di risparmio energetico, di fonti alternative e di auto elettriche fintantoché tutti questi nuovi sistemi non prenderanno definitivamente piede diventando alla portata di tutti. Questa rivoluzione verde ha bisogno di tempo. Ne consegue che i prezzi del petrolio resteranno complessivamente della stessa fascia degli ultimi cinque anni (circa 75-105 dollari per il Wti – il barile americano -, circa 85–125 dollari per il Brent – il barile inglese – , con trading solitamente più vicino al centro che agli estremi di queste fasce).

Il consiglio, però, è scommettere sul cambiamento: modificare le strutture attuali richiederà ricerche e investimenti per ottenere processi produttivi che risparmino energia (gli aerei prodotti oggi consumano molto meno kerosene di quelli di anni fa) e che dunque determinino un abbassamento dei prezzi delle materie prime. «In quanto investitori, dovremmo iniziare a guardare oltre la crisi finanziaria e quella dell’Eurozona, concentrando invece l’attenzione su come l’attuale era di prezzi petroliferi elevati sta modificando le nostre economie, potenzialmente permettendo alla produzione di sorprendere in positivo, quindi favorendo i mercati azionari senza necessariamente provocare in una fase iniziale gravi danni alle obbligazioni. L’attenzione può riguardare le opportunità d’investimento in energia, nella consapevolezza che prima o poi, forse dopo un decennio, il pendolo tornerà ad oscillare verso un’era di costi energetici più bassi, con opportunità nuove ed interessanti», conclude Keating. Che guarda già lontano.

Wall & Street

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