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La riforma Fornero è un disastro: a sei mesi dall’entrata in vigore uno dei pilastri portanti del governo Monti  NON ha aumentato l’occupazione, NON ha diminuito il costo del lavoro, NON ha favorito la competitività delle imprese, NON ha aiutato i giovani a trovare un impiego. Difficile fare peggio, anche per un governo di Professori  avulso dalla realtà come quello di Mario Monti.

A sancire il fallimento di Elsa Fornero e dell’intero esecutivo uscente è la ricerca curata da Gi Group Academy, la fondazione di Gi Group (la prima multinazionale italiana del lavoro) che fotografa gli effetti prodotti dalla nuova normativa raccogliendo le opinioni di capi del personale e imprenditori. Alla prima rilevazione online dell’Osservatorio Permanente sulla Riforma del mercato del lavoro (metà dicembre 2012-fine gennaio 2013) hanno partecipato oltre 500 imprese; il campione è rappresentativo della realtà italiana per i settori Industria, Commercio e Servizi su tutto il territorio nazionale.

Ecco che cosa è successo davvero dopo la riforma di Frau Elsa:

 

  1. L’unico obiettivo raggiunto dalla riforma è stata la riduzione degli abusi legati all’utilizzo improprio di forme contrattuali flessibili per il 54% delle aziende campione; a dare questo giudizio sono  soprattutto le imprese del settore Industria e quelle di grandi dimensioni.
  2. La riforma non ha diminuito il costo del lavoro per quasi tre imprese su quattro (73%) e non ha aumentato l’occupazione per due terzi delle aziende (66%).
  3. Per il 59% del campione la riforma non ha introdotto nuova competitività nel sistema.
  4. Per un intervistato su due la riforma non ha favorito l’inizio di rapporti di lavoro più stabili e al tempo stesso non ha facilitato i licenziamenti (52%).
Oltre la metà delle aziende coinvolte (54%) ritiene comunque che l’impianto non abbia aumentato l’inserimento nel mondo del lavoro nè dei giovani nè delle donne, così come non ha creato opportunità di impiego per gli over 50. Al contrario la riforma, per poco meno della metà del campione (46%), ha paralizzato  le scelte di assunzione delle imprese. Più nel dettaglio non sembra che la riforma abbia modificato i livelli di utilizzo dei vari strumenti di gestione delle risorse umane, eccezione fatta per le associazioni in partecipazioni (diminuite nel 51% dei casi). Tuttavia, le imprese che hanno evidenziato come la riforma abbia impattato sulle proprie scelte, hanno registrato un minore ricorso ai contratti di collaborazione a progetto (51%), Partite Iva (45%), contratti di inserimento (45%) e a tempo determinato (42%); mentre, è aumentato il ricorso all’apprendistato (per il 50%) e ai contratti di somministrazione a tempo determinato (per il 36%).

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“La riduzione delle forme improprie di flessibilità (come “Cocopro”, “partite Iva” ndr) è il principale risultato della riforma”, commenta l’amministratore delegato di Gi Group,  Stefano Colli-Lanzi.  L’altra faccia della medaglia è però che questo impianto ha limitato il ricorso ad alcuni strumenti senza senza indicare le alternative. Un esempio su tutti è il lavoro in  somministrazione, prosegue Colli-Lanzi che considera “incompiuta” la normativa anche per quanto concerne la flessibilità in uscita. Sarebbe stato infatti necessario scardinare “il concetto di inamovibilità del posto di lavoro che oggi, di fatto, crea un mercato duale in cui chi ha il posto è intoccabile, mentre chi ne è  al di fuori non ha quasi nessuna speranza di entrarvi”.

L’Italia deve quindi  investire per far ripartire l’occupazione, “spostare la tassazione dal lavoro ad altre fonti di reddito con la riduzione del cuneo fiscale, consentendo così di migliorare la retribuzione netta degli italiani”. Tre gli aspetti su cui agire, secondo Gi Group: incentivare l’apprendistato come contratto di inserimento, rendere l’outplacement obbligatorio per tutte le aziende che licenziano, e ridare centralità al contratto a tempo indeterminato, limitando solo a casi autentici il ricorso a forme di lavoro autonomo.

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