«Così la fotografia diventa un business»
«Un’immagine nasce prima di tutto nella mente, prende forma nell’immaginario, tutto molto prima dello scatto vero e proprio. Esattamente come fa un pittore che, anche quando ritrae la realtà, che è lì davanti ai suoi occhi, la trasforma comunque, perché è un processo che passa attraverso l’intuizione, il cuore e l’anima». Parola di Luigi Gattinara, fotografo professionista, al quale Wall & Street hanno chiesto come questa forma d’arte possa trasformarsi in un business. Una passione che può anche rappresentare un’opportunità di lavoro.
Signor Gattinara, la fotografia è un’arte. Con quali occhi dovrebbe avvicinarsi al comparto un investitore-collezionista?
«Credo, senza ombra di dubbio, che anche la fotografia debba essere considerata una forma d’arte visiva in quanto espressione dell’anima e del pensiero dell’ artista. Senza tralasciare che una bella foto non è solo un piacere visivo, ma è uno strumento per conoscere ed esplorare, comprensione e memoria. A mio parere un collezionista, che naturalmente voglia fare anche fare un buon investimento, dovrebbe avvicinarsi alla fotografia esattamente come farebbe con qualsiasi forma d’arte, un’ “istantanea” è figlia anch’essa dell’Estetica, le emozioni che può suscitare possono essere le stesse di chi guarda una qualunque opera d’ingegno, come scriveva il critico cinematografico Ricciotto Canudo, l’arte non è la rappresentazione dei fatti reali, è l’evocazione dei sentimenti che avvolgono i fatti. Senza dimenticare, comunque, che oggi la fotografia è sicuramente un buon investimento, senza arrivare a casi limiti come per una fotografia pittorialista di Edward Steichen, che fu battuta nel 2006 per 3 milioni di dollari, o per le quotazioni di Man Ray e Irving Penn che si aggirano sui 400mila euro».
Le aste sono l’unico modo per acquistare sicuri o ci sono anche altri mezzi?
«Le grandi case d’aste, e parliamo di Christie’s e Sothebys, sono sicuramente un marchio di garanzia che spesso hanno anche la funzione di imporre tendenze o di determinare il successo di un artista. Chiaramente non sono budget alla portata di tutti e parliamo di cifre importanti. Fortunatamente oggi esistono Gallerie d’Arte, serissime, che si occupano quasi esclusivamente di fotografia. In Italia è un fenomeno che è arrivato, in ritardo, dagli Stati Uniti, che vantano una lunga tradizione in materia, ma che sta dando ottimi frutti anche da noi. Senza dimenticare che manifestazioni prestigiose come la Biennale della Fotografia che si terrà a Torino in concomitanza con l’Expo nel 2015, curata da Vittorio Sgarbi e Giorgio Grasso, sono ottimi palcoscenici per chi ha occhio allenato e sensibile».
Che valore (dal punto di vista qualitativo) hanno dipinti o altre opere d’arte (ad esempio i collage o i decoupage) che hanno come base una o più fotografie?
«Parliamo sempre di arte, o meglio di chi riesce a trasformare ciò che vede o sente in opera d’arte. I mirabili collage pop di David Hockney ne sono un esempio, scompone, ricompone creando contrasti di luce e di materia in una narrazione continua. Senza dimenticare poi il Cubismo, il Futurismo e i grandi Maestri come Mimmo Rotella e Enrico Accatino. Qui la fotografia entra a grandi passi in un unico, immenso affresco dove la quotidianità delle cose esibite si trasforma in un’opera d’arte corale, dove la fotografia non è attrice secondaria».
Ma la fotografia – nell’era digitale – è anche il mezzo più veloce per comunicare un evento. Come cambia il modo di fare foto nell’epoca del selfie?
«Stiamo appunto parlando di comunicazione, comunicare, informare qualcosa a qualcuno. La creazione di tanti social network come Facebook, Myspace, Instagram, Twitter, ha cambiato il modo di relazionarsi delle ultime generazioni e il loro background sociale. Tutto è immediato, si “posta” in tempo reale e soprattutto foto, perché queste localizzano chi e dove sei, raccontano i tuoi gusti, cosa mangi, quanto e cosa, come vivi, immagini che hanno il ruolo di testimoniare. Anche se sono testimoni muti. Un affanno compulsivo che rincorre una vita a cui devi per forza allinearti. Ma stiamo parlando di un’esigenza sociale, tra virgolette, dove il selfie è un modo di comunicare nel gruppo, magari anche riducendo al minimo l’uso delle parole. Non ha cambiato nulla per chi usa lo strumento fotografico nel senso classico del termine e anche il digitale può benissimo avere un suo ruolo, velocissimo, per divulgare, diffondere un fatto o un evento in tempo reale. Questo è un ruolo importantissimo nella nostra società. Basti pensare a chi ci trasmette immagini di conflitti, scenari lontani, senza di loro non leggeremmo la Storia, anche se un grande come Robert Capa la Storia ce l’ha raccontata con la sua Leica chiaramente analogica».
Reflex o digitale?
«Ecco quello che ho appena detto su Robert Capa è un esempio calzante. Non è un problema di mezzo, reflex o digitale, è un problema di cosa tu vedi e come lo vedi. E soprattutto come lo immagini, nella tua testa, prima del momento in cui scatterai. Se fai questo percorso, sei a buon punto. Il soggetto è pronto per essere scattato solo quando ce l’hai negli occhi, con il suo taglio, la sua inquadratura e le cose che ha da dirti. Questo e solo questo fa la differenza, la tecnologia può solo aiutarti, in termini di tempo, di post produzione, di sistemazione cromatica e quant’altro. Velocizza il tuo lavoro, elimina i tempi morti, le attese. Ma se non sai fotografare, non saprai fotografare ne con il Reflex ne con il digitale».
Come si trasforma la passione per la fotografia in qualcosa di più?
«È difficile rispondere, perché è un fatto squisitamente personale. Molto soggettivo. Dipende, credo, da quanto sia forte la tua passione e la voglia di trasformarla in parte fattiva della tua vita. Non esistono ricette o manuali di facile consultazione per mutare una passione in attività produttiva o in qualcosa di diverso dal semplice hobby. Quindi non saprei, posso solo raccontare brevemente come è capitato a me. Vengo da una famiglia molto tradizionale, con una visione del mondo ben concreta. Allora fare il fotografo era, se non proprio un’occupazione disdicevole, sicuramente non gradita, ne incoraggiata. Restava quindi un mistero per i miei genitori questa passione che, già da adolescente, mi portava a fotografare oggetti di casa, principalmente vecchi orologi, che posizionavo sui muretti del Lungotevere, a Roma. Passione che mi ha spinto poi a trasferirmi a Milano subito dopo il liceo, per cominciare quell’avventura che non mi ha più abbandonato. E che ancora oggi reputo una straordinaria ed entusiasmante avventura. Ecco, forse è questo, innamorarsi di qualcosa che dopo trent’anni trovi ancora così eccitante!».
Cosa dovrebbero fare governo e Parlamento per sostenere il settore?
«Cominciando dalla scuola, ad esempio. Partendo proprio dai giovani, che sono il miglior investimento per un Paese. Mi spiego: in Italia gli istituti tecnici e professionali vengono vissuti come qualcosa di serie B, una scorciatoia per approdare al mondo del lavoro. Non è così, noi abbiamo una tradizione storica per tutto quello che può essere “manuale”, e che è soprattutto, prima, fucina di idee. Siamo grandi in questo, e lo dimostriamo da sempre. Potenziarli, far sì che i nostri ragazzi amino quello che in futuro andranno a fare, una sorta di bottega rinascimentale dove l’eccellenza abita. Anche il “mestiere” di fotografo potrebbe muovere lì i suoi primi passi. E poi, naturalmente, investire maggiormente nell’Arte, potenziare i musei, accessi più economici, alla portata di tutti. Ogni mostra che si fa in Italia richiama un pubblico incredibile, basti pensare alle file interminabili di queste settimane, a Bologna, per vedere il famoso dipinto di Vermeer, La ragazza con l’orecchino di perla».
L’Italia ha una grande tradizione artigianale, come si può impiegare per farne un volano per favorire la ripresa economica.
«Partendo proprio dal nostro Dna, quello che ci appartiene e che ci contraddistingue come unici. Abbiamo in noi un mondo fatto di arte, tradizioni, storia, cultura, genialità; è l’unico grande bene che nessuno potrà mai copiarci. Questo è il nostro vero Made in Italy. Va salvaguardato, investendo proprio su chi ha fatto il benessere dell’Italia, dalla piccola-media industria e dall’artigianato, creando nuovi posti di lavoro e non azzerandoli».
L’eccellenza italiana ha fatto la storia del nostro Paese ed è stata esportata nel mondo, riconosciuta da tutti come il “miracolo italiano”. Perché per “produrre” le nostre idee è necessario andare all’estero?
«È uno strano Paese il nostro, l’unico dove i talentuosi devono emigrare. D’altronde con una classe dirigente mediocre ad essere premiati sono proprio i mediocri».
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un exploit del cucinare. Trasmissioni, corsi, libri, nuovi chef, stellati e non. E molto spesso al maschile. Qual è la linea di demarcazione tra la riscoperta, e la rivalutazione, di un’arte di artusiana memoria e il business modaiolo?
«Anche la cucina, o meglio l’arte del cucinare, è nel nostro Dna. Non solo abbiamo eccelse materie prime ma sappiamo combinarle e trasformarle in piatti unici al mondo, persino con gli ingredienti più modesti. Quindi, per noi italiani, è abbastanza normale parlare di cibo, è un consueto e piacevole argomento di conversazione. I libri di cucina, poi, sono quelli che risentono meno la crisi dell’editoria, e forse sarà anche per questo che l’occhio attento dello show business ha ultimamente intensificato le sue produzioni televisive in tal senso. Fanno audience, sicuramente. Se poi a ciò si aggiunge il nome di qualche Chef stellato, il gioco è fatto. Quindi penso sia un sano mix tra business e vera passione italiana, o meglio… la seconda traina la prima. Se in televisione trasmettono un programma “culinario”, è difficile riuscire a cambiare canale, qualche ricetta catalizza sempre la tua attenzione, almeno così succede a me. Poi magari non ne sperimento nessuna, finisco sempre per fare e rifare le mie, collaudate da anni e tutte capitoline. Orgogliosamente milanese d’adozione, ma fedele romano ai fornelli».
Wall & Street