Il Parlamento ha votato la fiducia sul decreto lavoro del ministro Giuliano Poletti. Il provvedimento, che doveva sbloccare i mille lacci e lacciuoli della Riforma Fornero,  è stato pesantemente rimaneggiato in commissione Lavoro alla Camera e reso meno efficace dalla sinistra del Pd di matrice cigiellina. Per il premier Matteo Renzi si tratta del primo grosso stop dal suo insediamento a Palazzo Chigi e le mirabilie promesse col Jobs Act sono già diventate un lontano ricordo. Ne abbiamo parlato con Roberto Lombardi, amministratore delegato di Lacome Job Service, società che opera nell’ambito dell’amministrazione del personale, consulente della Cna e docente universitario.

Dottor Lombardi, ridurre da 8 a 5 le possibilità di prorogare un contratto a tempo determinato nell’arco di 36 mesi quanto disincentiverà il ricorso a questa forma contrattuale?

«Non penso che questo sia il vero punto della questione che riguarda sostanzialmente un mero problema di pesi e contrappesi di forze politiche all’interno della maggioranza. Nel breve periodo, infatti, le misure contenute nel Dl Poletti possono dare una scossa positiva per riattivare il mondo del lavoro anche se mancano totalmente di quella visione di medio lungo periodo a sostegno di un lavoro di qualità e contro il precariato che era stato ampiamente annunciato. In tal senso sembra che il governo abbia voluto aggirare il problema legato all’art. 18 non introducendo fin da subito quella che doveva essere la vera novità cioè il contratto unico a tempo indeterminato a tutele progressive. Di fatto ad oggi dopo la revisione della Commissione Lavoro anche questo intervento sembra depotenziato sia come si è detto per la riduzione del numero delle proroghe sia per ciò che concerne il mancato coordinamento del sistema di computo dell’organico aziendale rispetto alla contrattazione collettiva».

Inoltre si continua a escludere la somministrazione di manodopera. Non sarebbe stato meglio intervenire anche in questo senso?

«Sicuramente sì. Ancora una volta con il DL Poletti non si individua nel contratto di somministrazione una fattispecie funzionalmente autonoma rispetto al contratto a tempo determinato. In sostanza il decreto non semplifica il sistema di regolamentazione attuale anzi svilisce ancora una volta questo modello contrattuale limitandone il suo sviluppo quale modello di strumento innovativo di gestione del personale e meccanismo di competitività per le imprese».

La Commissione Lavoro è riuscita a difendere il mantenimento dell’onere della prova per la causale che determina la prosecuzione del rapporto di lavoro. Quanto potrebbe pesare questo ostacolo?

«Moltissimo. Credo che la cancellazione dell’onere della prova circa la causale che giustifica la prosecuzione del rapporto di lavoro se mantenuta depotenzi completamente la liberalizzazione del contratto a termine. Insomma nella prospettiva di questa rivisitazione di tale tipologia contrattuale pare incomprensibile e anzi spunto per un potenziale contezioso la mancata cancellazione  della prescrizione che poneva in capo al datore di lavoro l’onere di provare le ragioni poste alla base della proroga del termine, pur essendo venuto meno l’obbligo di allegazione di tali ragioni. Su questo punto sono altresì convinto che verranno posti dei correttivi a questo punto necessari pena di fatto la completa inefficacia del provvedimento».

Da non trascurare il limite quantitativo alla forza lavoro a tempo determinato: essa dovrà rappresentare il 20% di quella a tempo indeterminato e non di quella totale. Si ristabilisce perciò la primazia del contratto di lavoro a tempo indeterminato.

«È un passo indietro non tanto in relazione al considerare il tempo indeterminato come forma contrattuale tipica che rimane tale ma soprattutto per la necessità di un chiarimento rispetto al coordinamento con la contrattazione collettiva che si differenzia rispetto ai computi numerici dell’organico aziendale. Infatti rimane nel decreto il rinvio alla contrattazione collettiva di rilevanza nazionale la possibilità di confermare o modificare, in aumento o diminuzione il limite del 20%. In sede di conversione in legge dovranno essere necessariamente esplicitati in maniera inequivocabile dunque la nozione di organico tanto in relazione alle tipologie contrattuali, che all’articolazione aziendale (sedi produttive, punti vendita etc) che la base temporale per il computo percentuale. Senza un intervento correttivo in tal senso la dichiarata finalità di riduzione del contezioso risulterebbe fortemente compromessa in termini operativi. Inoltre rimane il nodo del sistema sanzionatorio rispetto al superamento di tale soglia. Preferibile sarebbe l’introduzione di una sanzione amministrativa e non alla trasformazione automatica e retroattiva in contratto a tempo indeterminato».

Per gli apprendisti si fissa l’obbligo di assumerne una quota del 20% se l’azienda ha più di 30 dipendenti. È un’altra tegola per l’apprendistato?

«La commissione Lavoro ha reintrodotto il cosiddetto vincolo di stabilizzazione cioè la quota del 20% elemento sicuramente disincentivante per le imprese. Questa misura va dunque assolutamente contro con l’idea di scommettere sull’apprendistato quale canale privilegiato per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».

Diventa obbligatoria l’offerta formativa pubblica (salvo che la Regione non comunichi al datore di lavoro di non avere specifici canali attivi). Si salvano i soliti stipendifici?

«Intanto va detto che la prima formulazione sull’apprendistato che prevedeva una estrema semplificazione poneva una importante questione in termini di legittimità riproponendo il noto caso dei contratti di formazione lavoro giudicati dall’Europa come aiuti di Stato perché privi di un robusto contenuto formativo costringendo le imprese che li avevano adottati a restituire gli sgravi contributivi operati. Sull’apprendistato invece sarebbe necessaria una forte concertazione tra gli attori in campo al fine di individuare in questo strumento un sistema strategico di incontro vero tra domanda e offerta di lavoro nonché un valore aggiunto per le imprese che per vincere le loro sfide sempre più globali hanno bisogno di investire sul valore delle competenze della forza lavoro di cui dispongono».

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