Anche i lavoratori del credito cooperativo,  come i colleghi bancari lo scorso 30 gennaio, hanno incrociato le braccia. Lo sciopero del 2 marzo, proclamato da Fabi, Fiba-Cisl, Fisac-Cgil, Ugl Credito e Uilca-Uil, ha ottenuto un’elevata adesione, oscillante – a seconda delle diverse località – tra il 70 e il 90 per cento. In Lombardia, dove maggiore è la presenza delle Bcc, le adesioni hanno superato il 95 per cento. Anche in questo caso l’astensione dal lavoro aveva un obiettivo ben preciso: protestare contro la disdetta unilaterale della contrattazione nazionale e regionale di settore deliberata da Federcasse. Anche in questo caso il sindacato ha scelto una forma di scontro raramente utilizzata in ambito bancario: nel caso delle Bcc non si ricorreva allo sciopero da ben 15 anni. Fino al 31 marzo, inoltre, è prevista l’astensione dal lavoro straordinario e supplementare. Non è roba di poco conto: le singole banche di credito cooperative sono realtà piccole nelle quali ogni sportello ha un direttore e pochi dipendenti. È chiaro che un’agitazione rischia di bloccare l’operatività.

 

«Chiediamo a Federcasse di abbandonare posizioni di sterile intransigenza e di riaprire il dialogo e un confronto serio e rispettoso con i sindacati, facendo un passo indietro sulla disdetta della contrattazione di categoria, che toglie diritti ai lavoratori e riporta il settore indietro di 50 anni», ha commentato Luca Bertinotti, segretario nazionale della Fabi. «Il credito cooperativo, adesso più che mai, ha bisogno di concertazione e di assunzione di responsabilità da parte dei vertici per affrontare e governare le complesse sfide del futuro», ha aggiunto sottolineando che «alimentare la conflittualità, come fatto fino a oggi da Federcasse, allontana dalla soluzione dei problemi ed è dannoso per i lavoratori, per la clientela e per il sistema nel suo complesso».

 

Fin qui l’informazione nuda e cruda. È necessario, però, un sovrappiù di analisi per capire quale sia la vera posta in gioco. Innanzitutto, una premessa rivolta ai nostri affezionati lettori: parlare dei dipendenti del settore bancario è parlare di lavoratori come voi e noi. Perciò, vi preghiamo cortesemente di astenervi dal commentare se il vostro pensiero si può riassumere secondo questo schema: «I bancari sono dei privilegiati, guadagnano un sacco di soldi mentre le banche truffano i loro clienti e noi poveri disgraziati paghiamo sempre!». Semplicemente, perché non funziona così! Oggi un bancario appena assunto ha uno stipendio che oscilla tra i 1.000 e i 1.200 euro mensili e, con il Jobs Act in vigore, entro i primi tre anni lo si può licenziare senza giusta causa previo indennizzo. Indipendentemente da come finiranno i due diversi tavoli di trattativa, gli scatti di anzianità saranno molto, molto meno generosi rispetto al passato. E comunque la preoccupazione del sindacato è quella di difendere i posti di lavoro: anche nel comparto Federcasse un buon numero dei 37.000 dipendenti è a rischio.

 

Ovviamente, siamo favorevoli a tutti quei provvedimenti che aumentano la flessibilità, eliminano le rendite di posizione e aumentano le opportunità per l’occupazione. Le persone, però, non si rottamano perché non sono un oggetto del quale si possa disporre liberamente. Ogni riforma, anche la più squinternata, ha bisogno di investimenti. Le riforme a costo zero non esistono. Nel caso del settore bancario, c’è stata molta disponibilità nel sostegno al Fondo Esuberi che è uno scivolo pagato dalle aziende per i prepensionamento. Ce n’è stata un po’ meno per il capitolo formazione: non è detto che tutti gli sportellisti siano in grado di trasformarsi in venditori di prodotti finanziari. Magari (e parliamo solo in teoria) è possibile recuperare qualche professionalità nel comparto della gestione crediti, a meno che le banche non decidano liberamente di proseguire nella pratica di esternalizzare queste competenze. Questo discorso non vale solo per le banche: tant’è vero che i decreti delegati del Jobs Act sono ancora molto carenti da questo punto di vista e, come ha denunciato il Giornale,  può anche nascere il sospetto che una parte del sindacato stia accettando un compromesso al ribasso pur di ottenere qualche prerogativa (e qualche introito) in più.

 

Il vero problema, però, è politico. il governo sta giocando una partita di potere per trasformare il volto del sistema bancario italiano. E, dopo il golpe sulle banche Popolari (che alla Camera, però, sta incontrando resistenze da ogni parte politica), ha lasciato al Credito Cooperativo la facoltà di scegliere come cambiare purché si cambi. Secondo la bozza in discussione in questi giorni, si va verso un modello «alla francese» con l’adesione obbligatoria delle banche a un gruppo cooperativo guidato da una spa che indirizza e vigila con ampi poteri di controllo. Non si sa ancora se ci sarà solo un maxi gruppo nazionale (Iccrea è la candidata naturale) da 37mila dipendenti oppure se verrà concessa la nascita di due o tre articolazioni su base territoriale (Nord, Centro e Sud). Quello che è certo è che il mondo del credito cooperativo dovrà cambiare faccia. Con le buone o con le cattive. Ecco spiegata l’escalation del sindacato, soprattutto quello del segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, nei confronti dell’esecutivo.

Ovvio che l’immobilismo non risolverebbe nulla. Ancorché il credito cooperativo sia, per tradizione, la faccia del sistema bancario più attenta ai rapporti con il territorio, la crisi globale ha lasciato strascichi pesanti anche nei bilanci di queste banche «particolari». Come denunciato dal capo della Vigilanza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, nel periodo giugno 2011-giugno 2014 i crediti a rischio del sistema sono balzati dal 10 al 17,5 per cento. Le sofferenze sono più che raddoppiate (dal 4 all’8,4 per cento. Le Bcc, che per molti anni hanno avuto un rischio credito più basso del resto del sistema, ora sono sopra l’intero sistema bancario (16,8%) e sui livelli delle grandi banche sottoposte agli esami Bce (17,4%).  Insomma, non ci sono strade alternative alle integrazioni, come per quelle più grandi, poiché la scarsa redditività e la forma delle cooperative come per le Popolari rende meno appetibile questa opzione agli investitori nel momento in cui le ricapitalizzazioni si fanno necessarie. La razionalizzazione dei costi è, perciò, un’esigenza imprescindibile. Ma siamo sicuri che l’unica soluzione sia sempre quella di «spianare» i lavoratori?

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