Le riforme costano
Le proteste dei tassisti contro il decreto Milleproroghe hanno esasperato molti italiani per i disagi che hanno creato e ne hanno indignati ancor di più a causa delle violenze gratuite e ingiustificate perpetrate durante alcune manifestazioni. Il problema, però, non è tanto l’apertura di un mercato caratterizzato da evidenti asimmetrie quanto le modalità con le quali si è cercato progressivamente di superare un’oggettiva difficoltà.
Sono dieci anni che, a vario titolo, ci occupiamo di taxi e di noleggi con conducente, ben prima che il car sharing e l’App di Uber rendessero obsoleta questa parte importante del trasporto pubblico. Soprattutto nelle grandi città, quando servono, i taxi sembrano sempre pochi. Le tecnologie di cui sopra, tra l’altro, li hanno resi meno convenienti rispetto a qualche tempo fa giacché sono sempre meno coloro che possono permettersi di spendersi più di dieci euro a corsa per usufruire di questo servizio.
Partiamo dai numeri (questo è un grafico de Il Fatto Quotidiano di due anni fa)anche se i numeri, in questo caso, sono affidabili fino a un certo punto. Sia perché le statistiche non sono aggiornatissime sia perché i conteggi sono effettuati per induzione. L’Istat monitora i circa 22mila tassisti nelle città capoluogo: In realtà, come si desume dall’Agenzia delle Entrate (è un’attività soggetta agli studi di settore), dovrebbero essere circa 50mila. I titolari di licenze di noleggio con conducente dovrebbero essere circa 80mila. Il loro problema è l’acquisto della licenza, un bene diventato commerciabile grazie alla legge 21 del 1992, che – in mancanza di bandi per l’assegnazione gratuita delle licenze, costa a ogni tassista da 150mila a 400mila euro e più in città come Venezia. Il decreto Bersani intendeva liberalizzarle abolendo il divieto di cumulo nell’ormai lontano 2006. La protesta dei tassisti romani bloccò tutto. E, nonostante i vari rimaneggiamenti, la normativa è rimasta sempre la stessa: i Comuni bandiscono nuove gare ove si ravvisi l’esigenza di aumentare il servizio. I tassisti devono confrontarsi con la concorrenza del noleggio con conducente per i quali l’obbligo di tornare in rimessa dopo l’espletamento del servizio (possono operare anche in Comuni differenti da quello ove è stata rilasciata l’autorizzazione) non sempre viene fatto osservare, circostanza che ha spalancato il mercato di Uber.
Insomma, il libero mercato per i tassisti è una tranvata in piena faccia. Stiamo parlando di lavoratori il cui reddito lordo medio annuo è di 15.600 euro, a fronte di una spesa media per l’uso del servizio taxi che in Italia scende sempre più verso la soglia dei 100 euro a persona. I tassisti, però, sono più facili da colpire per la politica in quanto la maggioranza di essi è politicamente di destra, dunque votano per partiti con poca (o nessuna) rappresentanza parlamentare, fatto salvo l’interessamento di alcuni esponenti ex An ora in Forza Italia (anche se va detto che tanto Matteo Renzi quanto, ai tempi, Walter Veltroni sono sempre stati buoni amici dei tassisti temendo di perdere in popolarità a causa del loro malcontento).
Bisogna allora considerare che le licenze sono l’unica leva per aprire veramente il mercato. E non solo dei taxi. In Italia si pagano questi dazi (su cui poi l’Agenzia delle Entrate impone un prelievo del 22-23% a seconda dei casi) sotto forma di buonuscita per i passaggi di bar, salumerie, negozi, agenzie di assicurazione: taxi e Ncc (nel loro caso il costo medio della licenza è di 50mila euro) rientrano in quest’ambito. La politica vuole riformare? Ricompri tutto risarcendo chi ha investito sperando di poter contare su una rendita di posizione che oggi non è più tale. Nel caso dei tassisti, a spanne, costerebbe tra i 7 e i 10 miliardi di euro. Lo stesso dovrebbe valere per tutti gli altri salvo diverse pattuizioni nel caso di passaggi di proprietà. Sono i residui di uno Stato che doveva (e deve) giustificare una burocrazia ingombrante.
In Italia c’è troppa abitudine a far pagare le riforme a coloro che dovrebbero esserne i beneficiari e finiscono, invece, con l’esserne danneggiati. La cultura delle riforme a costo zero nella variante «ce lo chiede l’Europa» ha generato la riforma delle pensioni Fornero: aumento obbligatorio dell’età pensionabile, taglio dei coefficienti di trasformazione e via andare. Eppure nonostante i risparmi conseguiti, l’Inps perde (e con lei tutti noi) perché lo Stato deve trasferire risorse per 100 miliardi l’anno in modo da garantirle a chi ne beneficia senza aver versato un adeguato ammontare di contributi. Basterebbe solo trasformare ogni posizione in un conto individuale in modo tale che, a seconda del montante versato, ciascuno possa decidere di ritirarsi dal lavoro liberamente. Un avverbio sconosciuto a questo Paese.
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