Nomofobia, un termine nuovo che deriva da «no more phone phobia», ossia la paura di restare senza smartphone ed essere disconnessi dalla rete senza poter condividere quello che ci accade, quello che pensiamo, quello che vediamo. Ne abbiamo parlato nell’ultima puntata del nostro live con Sabrina Priulla, responsabile progetti di Fondazione Piramis Onlus. «È un fenomeno che, purtroppo, ormai fa parte delle nostre vite, tanto che la dipendenza tecnologica è ormai considerata a tutti gli effetti una dipendenza e ha gli stessi meccanismi delle altre dipendenze. C’è con lo smartphone questa continua attesa della notifica che, come il like per i social, crea dopamina, quindi la sensazione di piacere, e questo crea proprio la dipendenza collegata all’attesa e quindi al desiderio di continuare ad avere delle notizie, di rimanere connessi», spiega Priulla

Il fenomeno, prosegue, è «collegato all’incapacità di stare nel qui ed ora, di vivere la situazione in cui si è, anziché rimanere connessi ad un dispositivo vedendo cosa succede nella rete, quindi nel mondo, che in realtà in questo caso è poi un mondo virtuale». Dunque, «non gusto più il presente, se pensiamo alle foto, al dover appunto postare, non sono nel presente, non mi gusto quel momento, ma il mio obiettivo è metterlo in rete per dire che c’è».

Qual è l’obiettivo? «È l’attesa del like e quindi quel riconoscimento, quella conferma che arriva dalla rete». Il fenomeno, osserva Priulla, «è molto grave ed è una dipendenza che davvero molto subdola se pensiamo ai ragazzi, perché in una fase dello sviluppo, dove comunque si ha la necessità di costruire la propria personalità, lasciare, che sia la rete, che sia il like, che sia l’approvazione e la conferma degli altri tramite i social, a darmi il valore di me stesso è assolutamente molto grave». E da qui, rileva, lo scenario si può allargare moltissimo perché «abbiamo il desiderio di apparire e quindi di emulare modelli evidentemente falsi» e quindi da qui si originano anche  i disturbi alimentari, le ossessioni per le diete o per la chirurgia estetica. «È l’esigenza di un corpo, di un’immagine che sia vicina a quella che poi viene veicolata sui social stessi. e quindi per un giovane sono meccanismi molto pericolosi, ma ancora di più aggiungerei il fatto che la mia identità e il valore del mio sé, quindi la costruzione del sé, del ragazzo, diventa quello che la rete mi rimanda».

«Le neuroscienze cognitive hanno confermato che durante il periodo dell’adolescenza la corteccia prefrontale è comunque ancora in continua modifica e cambiamento, questo ci fa pensare che il ragazzo a quell’età non abbia ancora gli strumenti cognitivi per capire e valutare le conseguenze delle azioni o del contesto in cui si trova e quindi ancora di più la figura dell’adulto dal punto di vista anche del sostegno cognitivo diventa fondamentale, soprattutto in una fase così delicata come quella appunto dell’adolescenza», rimarca Priulla.

È la famiglia, pertanto, che deve recuperare il proprio ruolo formativo. «Vanno ristabilite delle regole e vanno seguiti i giovani affinché non si dimentichi che ci sono delle sfere private, delle sfere, come dire, di condivisione con gli amici stretti e delle sfere invece che vanno verso il pubblico, degli aspetti che sono più pubblici. Oggi i bambini sono iperprotetti, non si cammina più, non si sta più in strada come succedeva decine di anni fa. Però il ragazzo sta in cameretta con lo smartphone. ed è come se fosse in una piazza infinita con degli sconosciuti che in maniera subdola possono adescarlo in maniera molto più, come dire, furba rispetto a una caramella per strada», aggiunge. Bisogna aver chiaro, conclude che «dare in mano uno strumento come lo smartphone a un ragazzino è come dargli in mano le chiavi di un’automobile molto veloce».

Gian Maria De Francesco

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