La prima volta che sono stato a Budapest era il 1987. Avevo vent’anni ed era il mio primo viaggio al di là del Muro. Non ero mai stato a Est. Tutto quello che sapevo sul comunismo lo avevo letto. Vederlo mi ha cambiato il mondo. L’Ungheria era quanto di più occidentale si potesse trovare al di là della cortina di ferro. A suo modo era ricca. C’era un negozio Benetton che aveva aperto da poco e le ragazze facevano la fila per andarlo a vedere. Rispetto alla Polonia o alla Germania Est credo che l’Ungheria fosse carica di speranze e ottimismo. E’ qui però che ho visto per la prima volta un ragazzo che cambiava fiorini in nero circondato da militari, portato in un autobus e picchiato a sangue. L’Ungheria non era un paese di libertà.

Sono tornato in Ungheria nel ’90. Prima a Budapest, poi sul Balaton. Era un’estate magica. Sul Danubio si respirava tutta l’allegria di chi era pronta ad allungare una mano e acchiappare il futuro. Le terme del Gellert, sull collina dove nel ’56 gli ultimi studenti resistevano ai carri sovietici, erano un’approdo internazionale. Il Balaton attirava tedeschi e per dormire bisognava adattarsi in stanze prese in affitto da vedove micragnose. Quanto tempo ci avrebbe messo l’Ungheria a entrare in Occidente?

La scommessa era che sarebbe stata la prima. Invece non è andata così. Ci sono tornato altre volte negli anni, l’ultima nel 2007. Era un paese triste. Perfino il Gellert sembrava ammuffitto, vecchio, trasandato. Non c’era lavoro. Le stazioni della metropolitana assomigliavano a suk di sfaccendati e malavita. Poche speranze, neppure quella di emigrare. Le banche straniere stavano lasciando il Paese. I laureati si ritrovavano con debiti, mutui troppo cari per comprare casa e occupazioni precarie. Molto peggio che in Italia. Quello che non mi aspettavo era il razzismo diffuso contro gli zingari. Anche quelli che ti parlavano per ore di libertarismo, o avevano sul comodino le traduzioni in magiaro di Primo Levi, quelli di sinistra che rimpiangevano il comuinismo continuavano a dire che tu non capivi. “Gli zingari da noi sono davvero un problema”. Non ne ero convinto allora, non ne sono convinto adesso.

Il problema degli ungheresi è la frustrazione. Sono più di vent’anni che vivono di promesse non mantenute, soffrono un futuro che non è mai arrivato. La responsabilità, come in Italia, è delle classe dirigenti. Non solo politiche. Anche economiche e culturali. La politica è stata un esempio di corruzione, clientele, mediocrità, miopia. L’economia non è mai riuscita davvero a scommettere sul privato. Quelli che si facevano chiamare imprenditori pensavano che gli affari si fanno solo all’ombra dello Stato, con le conoscenze e senza rischio. Gli intellettuali o si sono seduti al tavolo dei pochi nuovi ricchi, soprattutto banchieri e affaristi, oppure rimpiangevano il passato, nostalgici di una sicurezza perduta, quando il partito decideva le sorti di ognuno e bastava dire di sì per avere una corona di cartapesta da barone delle lettere o delle arti. Il partito liberale sosteneva solo le poche grandi imprese, detassare i super ricchi e tartassare artigiani,commercianti e piccola impresa. I socialisti hanno continuato a spremere lo Stato, fonte di privilegi e assistenzialismo.

E’ da qui, da questa situazione, che arriva al potere Vicktor Orban. Ci arriva con i due terzi dei consensi parlamentari, con la maggioranza assoluta dei voti, con il suo cinismo, con una campagna elettorale che strappa alla destra xenofoba i suoi cavalli di battaglia e li normalizza. Orban non mi piace. E’ uno che chiede la licenza ai giornali e controlla le notizie con una commissione governativa. Ha trovato negli zingari un capro espiatorio perfetto. Ha messo le mani sulla banca centrale e non è tenero con le opposizioni. Ma se sta lì lo deva alla mediocrità dei suoi avversari. Orban, da giovane, è stato un dissidente del regime. Più coraggioso di chi si è riciclato all’ultimo momento dopo che per anni denunciava i nemici del comunismo.  E’ uno che ha rinnegato il suo passato e per il potere ha messo da parte un bel po’ dei suoi vecchi valori. Il guaio è che come lui la pensano molti ungheresi.

Il suo successo si spiega in modo semplice. Sta facendo leva sull’orgoglio nazionale. Si batte in modo illiberale contro la corruzione. Le riforme costituzionali indeboliscono il Parlamento, ma quando la Ue, la Bce e il Fondo Monetario lo hanno messo alle strette, chiedendo condizioni draconiane per un nuovo prestito, con l’obiettivo di farlo cadere, lui ha scelto di non pagare. 

Perfino l’Economist denuncia il pressing Ue: “La commissione europea vuole che l’Ungheria adotti adotti una politica economica che non faccia necessariamente (per utilizzare un eufemismo) gli interessi del popolo magiaro. Ma se la difesa delle istituzioni democratiche continuerà a essere accompagnata dall’impoverimento del popolo ungherese non ci si deve stupire se questo non sia entusiasta dell’equazione Europa uguale miseria”.

Il governo di Budapest risponde alla Ue: “Non vi ridò i soldi che già vi vedo”. Nel farlo trova anche delle buone ragioni. Visto che l’Europa vuole decidere chi deve governare in Ungheria io non cedo al ricatto  e non pago i debiti. La scelta magari è folle, ma denuncia un vizio che negli ultimi tempi il comitato d’affari della Ue non finge più di nascondere. Questo signore in pratica ha smascherato un bluff. Cosa accade se non paghi e dici no all’europa? Le autorità di Bruxelles hanno scritto lettere, si sono infuriate, ma di fatto possono solo lasciare l’Ungheria al proprio destino. Di tutto questo il governo sta facendo una bandiera.

Orban parla di grande Ungheria. Ha fatto approvare una legge sulla cittadinanza che riporta l’Europa indietro di secoli. Lo ha fatto nel giorno della commemorazioen dei moti antiasburgici del 1848. Parla di Risorgimento più di Napolitano e di fatto considera ungheresi qualsiasi persona che abbia un origine magiara.

Orban ha abbassato le tasse su lavoro e impresa al 16 per cento. La sua ricetta è fregarsene del debito pubblico e delle agenzie di rating e scommettere su una ripresa economica grazie all’aumento dei salari reali. Questo spiega perché la sua politica antilibertaria sta avendo successo. Ma fa capire anche che l’Unione europea con la sua rigidità rischia di favorire un sentimento revanscista in molti Paesi.

Orban è un sintomo, ma la malattia dell’Europa è la Ue.

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