L’uomo ha ormai quasi tutti i capelli bianchi. Non è un vecchio, ma il talento ti consuma in fretta. Anche la barba è brizzolata. È nel suo laboratorio, qualcosa che qui nel Nord Est ha la stessa sacralità delle chiese. Da quando ha smesso lavora con le mani. Sta restaurando una vecchia gabbia per uccelli. Le colleziona. Ne ha più di trecento. Su una parete c’è anche uno strano museo per cacciatori: specchietti per allodole, richiami, anatre di legno. Quattro erano di Giacomo Puccini, le ha trovate sul lago di Massacciuccoli. Da qualche parte c’è anche un baule pieno di maglie da calcio, più di seicento. Maradona, Ronaldo, quella bianca di Pelè del Santos, Zico, Van Basten. Da quanto tempo si è tagliato il codino?
Roberto Baggio un personaggio da romanzo forse lo è stato sempre, come l’incarnazione italiana della speranza improvvisa, una sorta di epifania, una rivelazione. Quella strana rassicurazione per cui dal suo piede potesse arrivare prima o poi un’illuminazione. Quando tutte le porte erano chiuse, quando il gioco stagnava, quando il calcio era solo schemi, c’era qualcuno, magari in panchina per vendetta degli uomini contro gli dei, che vedeva il corridoio inesistente, lo spazio bianco, la pagina ancora non scritta. Baggio come la speranza di un miracolo. Ora che ha smesso di giocare da troppi anni qualcuno ha pensato davvero di scriverci sopra un romanzo. Non un saggio. Non una biografia. Non la storia vera o presunta di un fuoriclasse. No, un romanzo. Qualcosa di diverso perfino dal film che Kusturica ha costruito su Maradona.
Matteo Salimbeni e Vanni Santoni raccontano L’ascensione di Roberto Baggio (Mattioli editore), romanzo quasi sudamericano, ai confini del realismo magico, con una combriccola di picari che va alla ricerca di miracoli e vestigia, reliquie e frammenti di storia. Baggio è evocato, come se fosse una leggenda, o meglio un santo. È la santità che gli riconosce il popolo dei «baggisti», quelli che per vent’anni hanno visto il lui la personificazione del talento senza aggettivi, qualcosa che appartiene allo spirito di una nazione. È la religione di un uomo senza vittorie, senza coppe, senza medaglie. E in fondo a spulciare negli almanacchi del calcio la sua è la biografia di un mezzo perdente: due scudetti, una coppa Italia e una coppa Uefa. Una miseria rispetto alla sua gloria.
Platini ha aiutato la Juve a vince alcuni scudetti. Zidane ha aiutato la Juve a vincere altri scudetti. Tutti e due hanno reso grande, europea e mondiale, la Francia. Van Basten ha concretizzato il Milan di Sacchi. Mancini e Vialli hanno regalato alla Samp il primo scudetto. Maradona è addirittura l’incarnazione di Napoli. Baggio, chiosa chi non lo ama, non ha mai contribuito davvero a un grande trionfo. È l’effimero. Ma è proprio questo il suo miracolo. Baggio è il calcio per il calcio. È la sua essenza, la sua divinità. È puro spirito. È la bellezza che esiste solo per essere bella. Senza scuse. Senza altri fini.
Alla fine del viaggio Salimbeni e Santoni fanno di Baggio la materia e l’antimateria del numero 10. Se il 10 è il numero santo del calcio, Baggio ne ha convertito la legge. «Baggio è un numero dieci ancor prima di esserlo, ma smette di esserlo nel momento in cui tale numero gli viene messo addosso. Ha la classe del dieci ma il suo carattere gli vieta di impossessarsene vita natural durante.
Tutti, lui compreso, lottano contro la minaccia dell’uno e dello zero. Gliela strappano dalla carne. Gli offrono altre maglie. C’è chi dice che il magnetismo del numero dieci, alla lunga, abbia agito su di lui come la kryptonite. Intervistato ai tempi della Juve trapattoniana afferma: il mio numero preferito è il diciotto». Quel numero gli calzerà addosso come una corona di spine.

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