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Nei pressi di Piazza Sempione, a Milano, c’è una via che percorro quotidianamente con marciapiedi molto stretti, resi quasi invalicabili per il parcheggio scorzone di numerosi scooter… sul sellino dei quali il mio cane è comandato a urinare. Questo insignificante spazio fisico è un significativo valico culturale. Noto infatti, da anni, giorno dopo giorno, che nessun uomo si ferma o anche solo esita di fronte al passaggio di una signora. Graziosa, cozzarella, giovane, veneranda… non conta: il maschio tira dritto. Alcuni accelerano per avere inequivocabilmente la meglio, quelli che guardano il cellulare scartano la passante come fosse un cartello stradale, altri ancora si fanno largo a spallate. E noto tanto più la cosa quanto più per me è impossibile imitarla; non per un affettato ossequio al bon ton, piuttosto perché mi farei violenza nel far violenza. E il buffo – o il deprimente – della circostanza è che quando indugio per cedere il passo… la donna in transito mi squadra come se volessi metterle le mani nella borsetta o sotto la coda.
 La cortesia è ormai come il profumo di un tempo svanito. Annientato dall’oblio. E l’oblio è come una carne di cose viventi che si riforma sopra i sentimenti e impedisce di supporre che qualcosa di diverso sia mai esistito. Seimila anni di progresso umano, diciamo dai Sumeri agli Yuccie, ci hanno portato all’indifferenziato. L’unico ambito dove pare ancora lecito distinguere è nella raccolta della spazzatura. Ma l’indifferenziato porta seco l’indifferenza. Ignorare l’altro come lui ignora noi è una delle più considerevoli conquiste della contemporaneità. Oggi i maturandi hanno dovuto maneggiare Seneca: «Ovunque si trovi un essere umano, vi è la possibilità per una gentilezza». Ma alla gentilezza, che eleva, si è sostituita la correttezza, che livella. Il più sontuoso fiorire di quote rosa artificiali, quelle sì sessiste, non vale un frantume della cortesia perduta con la quale celebravamo le donne. La galanteria, persino quella ridicola o caricaturale, era una forma di riconoscimento. Che saliva dallo spirito, dal pensiero, dal principio, e si faceva costume. Ora è la superstizione ideologica che scende alla prassi, come una maledizione che si insinua, per cui ci si dice femministi e per le donne come si tocca ferro quando passa un’ambulanza perché si teme l’anatema del collettivo.
Nell’apparente conformismo delle maniere sopravviveva il principio dell’individuazione. Anche nell’automatismo. Il gesto noncurante del signore che estraeva un Dupont a punta di diamanti e infiammava il tabacco di una dama, suscitava la vertigine della frontiera fra anime e solo dopo saldava la consuetudine di una comunità. Ed è ciò che separava l’uomo dal vucumprà. Tuttavia, non vi era nulla di elitario, di classista. Si trattava piuttosto una visione del mondo. Come scriveva saviamente Evola: «La visione del mondo può esser più precisa in un uomo senza particolare istruzione che non in uno scrittore, nel soldato, nell’appartenente ad un ceppo aristocratico e nel contadino fedele alla terra che non nell’intellettuale borghese, nel professore o nel giornalista. Circa tutto questo, in Italia ci si trova, e non da oggi, in una posizione assai sfavorevole, perché chi fa il buono e il cattivo tempo, chi troneggia nella stampa, nella cultura accademica e nella critica, organizzando vere e proprie massonerie monopolizzatrici, è proprio il tipo deteriore dell’intellettuale, che nulla sa di ciò che è veramente spiritualità, interezza umana, pensiero conforme a principi».
 In un consorzio occidentale assediato da visioni del mondo che interpretano il femminile come qualcosa di cui si teme e si reprime l’insubordinazione, anche la finta emancipazione di una donna che si crede più donna perché è sempre più simile all’uomo, resta una conquista da difendere, va detto. Eppure, l’appiattimento dei sessi ha prodotto effetti nefasti nel relazionarsi galante o anche solo nell’urbana interazione. Perché in un convito senza più donne, anche molti fra gli uomini più gentili perdono la loro distinzione naturale. E non c’è di che stupirsi, poiché non hanno più il pubblico da onorare. Così acquistano qualcosa di trasandato che diventa volgarità al primo attrito. Come scriveva il superbo Barbey d’Aurevilly, «L’egoismo, l’inevitabile egoismo – e l’arte del galateo è di velarlo sotto forme piacevoli – mette presto i gomiti sulla tavola, aspettando che voi li piantate nel fianco del vicino». Ed è così che accade lungo i marciapiedi di Milano, anche nel confrontarsi virile, la cui prossemica sembra presa a prestito da un bivacco militare di Marcomanni, dove cedere il passo è vissuto come disonorevole. L’unico signore a cui l’ho visto fare negli ultimi tempi è un mio vicino, distinto gay di mezza età, che si è scostato per far passare un ragazzo molto più giovane. Lui solo si è comportato da gentiluomo autentico, defilandosi elegantemente con le mani dietro la schiena… per poi voltarsi e guardargli il culo.
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