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Al concerto di Vasco Rossi in quel di Modena hanno partecipato oltre 220mila persone. Un popolo di fedeli, come molti osservatori lo hanno definito. Gente che andrebbe in guerra al fianco del proprio consacrato idolo; ragazze pronte a spogliarsi pubblicamente intonando le vivide strofe del poeta:«La la la la la la…fammi vedere…la la la la la la la…fammi godere!». Il tifo calcistico è spesso chiamato “fede” da chi lo vive. Uomini adulti che piangono per la sconfitta dei propri colori o che abbracciano lo sconosciuto vicino di posto nella vittoria. So di persone che hanno preventivamente comandato di far avvolgere la propria bara con la bandiera della squadra del cuore. Ora, per quanto queste testimonianze di fedeltà, di lealtà e di devozione possano risultare primitive all’occhio spassionato, non per questo smettono di esistere. Ciò significa che il bisogno di appartenenza, di identificazione in qualcosa che trascende il singolo, di abnegazione verso una causa più grande, finanche gli slanci di idolatria – che siano innocui come nella musica o deliranti come nel fondamentalismo – sono una spinta propulsiva invincibile nell’animo umano.



Il terrore per le degenerazioni di questa energia aggregante e abbacinante  – dalla guerre di religione ai nazionalismi della storia più recente – ci ha portato a inaridirne quasi del tutto il potenziale vivificatore, confinandolo alle manifestazioni marginali del divertissement come appunto un concerto rock o una partita di calcio, escludendolo dal consorzio politico, da ogni ideale comune di buona vita e da qualsivoglia progetto di Nazione. La moralità liberale, che si sforza di giudicare in maniera impersonale, destoricizzata, eradicata, puramente razionale, lungi dall’aver liberato il singolo, lo ha soltanto reso schiavo dell’astrazione, della quale lo smarrimento esistenziale è il sintomo e la finanza apolide terrificante reificazione. Oggi l’appartenenza significa semplicemente far parte di un trust in cui è permesso coltivare l’interesse privato, entro i confini del consumo. Di cose e di valori, messi in vendita sul mercato globale. Il politicamente corretto altro non è se non la moralità liberale portata all’altezza dei barboncini, per cui uno vale uno e mai più di uno, tutti hanno eguali diritti a essere infelici, a perseguire i propri scopi, a manifestare le proprie credenze, nessuno ha più diritto di un altro ed è necessario essere tolleranti con tutto e tutti. Per quanto io sia razionalmente portato a interpretare la morale in senso kantiano, quindi fondata sull’autonomia della ragione, osservo che questo genere di moralità «esile», per dirla alla Sandel, non ha alcuna forza di coesione sociale e finisce, quando istituita a pensiero unico, con il degenerare nell’arbitrio di un tetro catechismo relativista, come già profetizzato da Ratzinger.



Ciò che ancora sfugge è che se l’azione morale libera, svincolata da ogni faziosità e particolarità, è idealmente preferibile poiché emancipa l’autonomia morale nella sua autenticità, calata nel concreto si rivela mera amoralità. La licenza ha divorato ogni possibile libertà. Il «dovere verso se stesso» su larga scala si è trasformato in miserevole rapacità, dove il singolo si crede libero perché può arraffare quanto più è in grado di arraffare e spendere le proprie prefabbricate opinioni sul mercato della città-mondo. L’attenzione all’uomo come dovrebbe essere, non può farci ignorare l’uomo come esso è. Sicuramente l’eroe morale esiste, ed è colui che butta la carta nel cestino ovunque si trovi, a Palermo come a Merano, perché si impone liberamente di non sporcare, in ottemperanza a una legge universale che lui ha fatto propria in accordo con la propria ragione; tuttavia, di fatto, in Alto Adige nessuno butta cartacce perché gli altri non buttano cartacce. Poiché se lo fai vieni osservato con biasimo. E in ultima istanza, vieni sanzionato. L’approvazione sociale e il conformarsi per amore, per vanità o per inerzia a una dimensione morale condivisa e istituita a regola sono meccanismi più efficaci per alimentare e consolidare il comportamento di quanto non sia l’affidarsi alla buona creanza del singolo. Ovviamente questo avviene anche nella degenerazione violenta, come l’infezione della mentalità fascista ha mostrato, e più in generale dimostra la legge del branco. Se è vero che ogni forma di patriottismo si rivela fonte permanente di pericolo morale perché richiede una faziosità incondizionata, è altrettanto vero che la moralità liberale dell’imparzialità, dell’impersonalità, della tolleranza, del tutti liberi di essere e fare ciò che gli va, imposti con stile paratattico e suscettibilità puritana da politici e media lacchè come unica via possibile di convivenza civile, si rivela anch’essa un fenomeno moralmente pericoloso, perché rende i nostri legami sociali troppo esposti alla dissoluzione, all’horror vacui e infine alla colonizzazione.



Tollerare tutto, incluso l’intollerante, è suicida. Un soldato moralmente liberale come può morire per il suo Paese? Come gli si può chiedere di difenderne i confini a costo della vita? Come può uccidere un invasore che ha, all’interno di questo orizzonte morale, diritti e ragioni legittimi almeno quanto i suoi? Questo contraddittorio apparato è a tal punto vicino al punto di rottura che in queste settimane, dove si respira un goffissimo clima emergenziale, assistiamo alla maldestra retromarcia del progressismo precettivo, che dopo averci ammorbato per anni sulla barbarie dei muri, sull’arretratezza degli Stati nazionali, sulla necessità morale dell’accoglienza, sul vanto di sentirsi cittadini del mondo pronti ad abbracciare il prossimo, chiude precipitosamente i porti e mette polizia e corazzati ai confini terrorizzato dall’invasione.



Gli Stati burocratici occidentali, per non parlare delle istituzioni sovranazionali, tendono ad annientare ogni memoria nazionalmente intesa, ogni orgoglio comunitario, e con essi ogni resistenza morale della cittadinanza all’aggressione esterna. Malauguratamente, e ciò dovrebbe preoccuparci in tale cruciale rivolgimento storico, questa sovrastruttura non ha che una flebilissima calamita affiliatrice per chi viene accolto. La posizione tipicamente progressista dell’integrazione, anche quella animata dalle migliori intenzioni, ignora queste circostanze. Quando gli analisti più autorevoli restano allocchiti di fronte ad azioni terroristiche nate su suolo occidentale, domandandosi come sia possibile, lo fanno perché ignorano abissalmente la menzione costitutiva della comunità: «Sostenere che alcuni membri di una società sono legati da un senso della comunità non significa semplicemente dire che un gran numero di essi professa sentimenti comunitari e persegue scopi comunitari, ma piuttosto che essi concepiscono la loro identità – il soggetto e non soltanto l’oggetto delle loro aspirazioni – come definita, fino a un certo punto, dalla comunità di cui sono parte». Una delle ragioni principali per la sopravvivenza della Mafia, financo incastonata in un moderno Stato di diritto come l’Italia del dopoguerra, è da ricercarsi proprio in un sistema di loyalties che ha sovrastato ogni eventuale devozione a un’impalcatura alternativa, astratta e neutrale, rappresentata dallo Stato. Ciò che non si comprende è che la forza della moralità è tanto più forte quanto più impositivi e significanti sono i legami particolari che la sorreggono; l’onore in senso mafioso, verso la Famiglia, per chi nasce e cresce nel particolare, vincerà quasi sempre sul senso civico o sul rispetto della legge universale. Così come la guerra santa vincerà sulla tolleranza laica. Per cui un islamico, benché nato in terra cristiana e cittadino di una democrazia, sarà sempre e prima di tutto un islamico. Ma anche un cinese di Paolo Sarpi resterà cinese, anche se abile nell’esprimersi in italiano. Per essi la comunità descrive non soltanto ciò che hanno come concittadini, ma anche ciò che sono, non una relazione che scelgono ma un legame che scoprono come elemento costitutivo della loro identità. Ovviamente «il contesto è una condanna definitiva solo per gli spiriti comuni», ma sono gli spiriti comuni, ahinoi, a popolare il mondo. Se non accettiamo l’elementare constatazione empirica del sé situato, ogni nostro anticorpo sarà vano e saremo prima spolpati dai mondialisti del capitalismo finanziario, infine assorbiti da altre civiltà. Per cui è opportuno domandarsi: la tolleranza, la neutralità, sono realmente virtù? Rafforzano o indeboliscono una società che se le prescrive?



La nostra creatura sociale, come accennato in un post precedente, produce sentimenti di attaccamento e lealtà, se non di idolatria, nei confronti di squadre di pallone, star del rock o di Instagram, di brand commerciali, laddove ad altre latitudini l’attaccamento e la lealtà, se non l’idolatria, si indirizzano verso un Dio onnipotente e una comunità che ne celebra il culto: come possiamo pensare di competere? Come possiamo pensare di integrare? Accogliere, non accogliere; è nostro dovere, non è nostro dovere. Nell’opportunismo abborracciato e cretino di Renzi e della politica europea in genere, oltre all’antropologica assenza di integrità e volontà buona, c’è una desolante carenza di basi filosofiche che permettano di sottoporre a esame la drammaticità del reale. Mi servirò di un profittevole passaggio firmato da Alaisdair McIntyre:



«Hegel adopera un’utile distinzione, da lui sottolineata attraverso l’uso dei termini Sittlichkeit e Moralität. La Sittlichkeit è la moralità tradizionale di ciascuna società particolare, e non pretende di essere niente di diverso. La Moralität regna nella sfera della moralità impersonale, razionale-universale, della moralità liberale come l’ho definita. Ciò che negli Stati Uniti agli immigrati veniva insegnato era che essi si erano lasciati alle spalle Paesi e culture dove Sittlichkeit e Moralität erano sicuramente distinte, e spesso in opposizione fra loro, ed erano giunti in un Paese e in una cultura la cui Sittlichkeit era proprio la Moralität».



Gli Stati Uniti lo hanno fatto per necessità storica, confusamente, incoerentemente, rendendo l’urlo clamoroso “Usa! Usa!” voce di un patriottismo che si identifica con la causa della moralità liberale, dove tutte le culture che sbarcavano erano chiamate ad assoggettare il proprio entroterra a una lingua franca e al culto democratico dell’eguaglianza di tutti di fronte a una legge imparziale. Noi, figli di Socrate e di Gesù, per mostrarci ostentatamente secolarizzati, liberali e aperti al mondo, abbiamo idoleggiato il feticcio di una tolleranza superficialmente rasserenante, i cui esiti iniziano ad allarmare anche i più rimbecilliti; mentre al contempo, con indefessa ottusità, ci siamo impegnati a diradicare ogni escatologia, ogni orgoglio comunitario e popolare, abbiamo deriso il sentimento religioso e quello patriottico, esponendoci, fra un campionato di calcio e un concerto del Blasco, alla disintegrazione culturale.



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