Il sogno della ragione
Ieri sera dopo aver cenato con canederli alle erbe, sella di cervo alle mele renette e Sachertorte… mi sono coricato inquieto. E con il sonno è arrivato, a tradimento, un incubo terrificante. Una gragnuola di deliri onirici che mi avrebbe fatto svenire dal terrore se solo fossi stato sveglio. Mi accingo allora a raccontarvi ciò che ho ancora vividamente davanti agli occhi della mente, i più acuminati. Mi trovavo sul divano di casa con un peluche di Maurizio Costanzo sulle ginocchia quando il telegiornale di La7, bizzarramente condotto da un venusto Gianni Ciardo, annunciava una nuova occupazione in quel della capitale. Un’imprecisata delegazione di rifugiati, forse in fuga dalla banlieu di Sharm el-Sheikh, aveva abitato la redazione di Repubblica in via Cristoforo Colombo 90. Il panico, per quanto ingiustificato, era palpabile, e dalle immagini dell’inviato di La7, il cinico Ugo Francica Nava, si intravedeva la sagoma di Umberto Galimberti urlare confusamente attraverso una di quelle pareti di cristallo simbolo del capitalismo finanziario. Il telegiornale segnalava che alle 17.22, ora di Addis Abeba, una telefonata aveva allertato le forze dell’ordine; l’allarmantissima voce era quella di Michele Serra, la cui amaca era stata requisita da un giamaicano di nome Kavin, che in strettissimo ossequio alla tradizione etiopica ortodossa del Kebra Negast, aveva acconciato l’editorialista con la tipica capigliatura rasta. Al primo tentativo di SOS rispondeva la segreteria telefonica, che suggeriva di lasciare un messaggio dopo due vangeli del sorriso. Il corsivista illustrava, con quel poco di lucidità che ancora era in grado di governare, la drammatica progressione dell’invasione da parte di questi clandestini giunti alle prime luci dell’alba, descritti come portatori insalubri di un olezzo senza passaporto e di maniere poco avanguardiste. «Venite subito e sparate nel culo a questi beduini, per la Madonna!», il concitato suggerimento umanitario dello scrittore. Forse in virtù di quella santa invocazione alla Vergine, l’appello viene tosto raccolto da Franco Gabrielli in persona, che lo rassicura su di un celere e proporzionato intervento delle Forze dell’Ordine.
Di lì a pochi istanti, ratto come la folgore, uno squillo di prima tromba solista annuncia l’arrivo di ufficiali e marescialli in uniforme da cerimonia, che con solenni doppiopetto tagliati in una saglietta piuttosto scattante e guanti bianchi in pelle di cervo arrivano ad accogliere gli estroversi delegati di così lontane civiltà. L’ambasciata viene gestita con la consegna di una sciabola da rappresentanza a lama semicurva con stemma araldico della Polizia di Stato al capo degli ospiti. Quest’ultimo, un eritreo di padre albanese e madre senegalese di nome Tengo Familja, martire della guerra degli smeraldi colombiana, ringrazia per il piccolo omaggio ricambiando con la vita di Giuseppe Smorto, e quindi inizia a menare fendenti con l’acuminata regalìa, pettinando i barbigli cattocomunisti dei giornalisti sopravvissuti come la barba del Saladino. Sconcertati dall’inopportuno antimilitarismo delle Forze dell’ordine, gli sventurati sono così costretti ad appellarsi alla voglia di integrazione dello straniero.
Un primo coraggioso approccio lo tenta Corrado Augias. Il savio intellettuale, eminenza grigia della semiotica e del button-down, intuisce come la comunicazione bidirezionale in linguaggio parlato con bagonghi bracaloni e watussi spilungoni che o-o-ogni tre passi, o-o-ogni tre passi, faranno oltre sei metri, sarebbe del tutto velleitaria; così prova la strada, forse troppo audace, dell’autopromozione, offrendo alla controparte una copia autografata de Il Disagio della Libertà, rilegato pertinentemente in marocchino, a soli 15.50 euro e paraponzi ponzi po. La risposta dei richiedenti asilo + qualche femmina bianca + antipasti misti è poco incoraggiante e il libro dell’improvvisato vucumprà viene utilizzato come pesantissimo scudiscio per sculacciare un garrulo Oscar Farinetti, scortato fin lì dalla polizia al fine di organizzare l’arci accoglienza della mensa e incapace di scaldare tempestivamente i Maxi-Giotto con doppio formaggio Raschera DOP agognati dai numerosi ed esigenti avventori della struttura. Alla mezzanotte si spengono le luci. La voglia di accoglienza dei giramondo non è ancora satolla e un aitante guerriero di ceppo bantu dal palato fino si risolve ad approcciare la raffinata Concita de Gregorio con l’esotico charme del Sultanato di Zanzibar. Invece, Concita, tutt’altro che lusingata da quelle squisite attenzioni, fa inopinatamente la ritrosetta. Yussuf insiste invitando la dama a danzare con lui, bullandosi con grazia di aver inventato tanti balli, il più famoso e l’Hully Gully, Hully Gully. Allunga una mano verso di lei per intrecciare note e consuetudini, ma la de Gregorio è sorda anche al richiamo della musica etnica. Yussuf coglie il razzismo di fondo che si cela fra le ciglia smorfiose della donna italiana e urla legittimamente alla discriminazione: «Lei non volere me perché io negro!». Uhhhhh! L’episodio detona interiezioni di sorpresa, crea scalpore, scandalo, indignazione, infine risentimento, complicando i successivi scambi culturali.
I rifugiati nel frattempo avevano educatamente chiesto le chiavi delle auto aziendali per poter far qualche scorribanda turistica nella capitale e le avevano ricevute dalla zelante segreteria di redazione appena prima che perdesse i sensi. Lo status di rifugiato garantisce infatti, oltre al diritto di asilo, anche il conseguimento automatico delle patenti A, B, C, C1: per evitare che l’eventuale fondamentalista non sia provvisto di regolare autorizzazione amministrativa. Il rispetto della legge è prioritaria anche in fase REM. Uno di loro, incappucciato paranoide che si mascherava più che altro per paura di essere riconosciuto dalla moglie e dalle figlie abbandonate in Libano il mese prima, sale sulla camionetta degli eventi. Costì sorprende lo scaltro Curzio Maltese, che nel retro del veicolo cercava clandestinamente di telefonare al proprio coiffeur ellenico. L’incappucciato, con la voce di chi non prende prigionieri, richiude l’auto e torna poco dopo brandendo un estintore. Proprio mentre si trova sul punto di scagliarlo senza tante cerimonie, benché con il coraggio del pettirosso, sulla testa di Maltese… viene provvidenzialmente abbattuto da un pensionato romano in tutto e per tutto simile a Mario Brega, vecchia tessera di Rifondazione, di vedetta su un balcone vicino, che teneva una Beretta sempre carica nel marsupio per difendersi dagli extracomunitari, colpevoli a suo dire di avergli svaligiato casa sette volte negli ultimi sei mesi. Maltese, avuta salva la zazzera, esce in lacrime buttandosi in ginocchio sotto il ballatoio dell’eroe della porta accanto: un eroe italiano.
Ora, per quanto io sia onironauta di una certa esperienza, la sintassi del sogno mostra comunque macroscopiche incongruenze o palesi assurdità che purtuttavia vengono accettate come perfettamente ragionevoli. Ci può capitare di parlare con nostro padre e vederlo prendere pian piano le sembianze di Nanni Moretti senza che questa circostanza allerti alcun test di realtà. Credo che questa sia peraltro la condizione percettiva in stato di veglia tipica del normale imbecille. Qui il sogno imbocca infatti uno di quei vertiginosi toboga logici difficili da giustificare. Accade dunque che una seconda telefonata arrivi all’orecchio di Gabrielli, quest’ultima composta da Tengo Familja. Il boss dei beduini, con urla belluine, o viceversa, fa capire al direttore generale della pubblica sicurezza che lui tollera i cristiani, i giudei e financo gli occidentali senza Dio, ma i progressisti pettinati, quelli proprio non li può sopportare. E come lui tutti i perseguitati al suo seguito. «Se avessimo saputo che dopo conflitti sanguinosi e traversate perigliose, come ultima spiaggia saremmo finiti a convivere con quel puzzone di Chicco Testa», queste le parole di Tengo, «saremmo rimasti a casa nostra». In men che non si dica tutta la redazione e gli ospiti vip, fra i quali si riconoscono anche Marco Tronchetti Provera e Michele Apicella, vengono fatti sgomberare con enormi difficoltà, fra lanci di fotocopiatrici incendiarie e rulli di rotative rotanti, con gli aventi diritto pronti a suggerire ai mansueti agenti di far saltare qualche clavicola per ripristinare l’ordine pubblico. Qui, probabilmente vicino al risveglio, vengo colto da allucinazioni ipnopompiche, dove mi avverto fotografare con una vecchia Leica la mano di un immigrato che accarezza e consola un’inerme poliziotta fascista mentre l’anziano eroe del balcone, vittima collaterale dei tafferugli, viene travolto dalla scheggia di un editoriale esplosivo di Massimo Giannini: «C’è solo una cosa che indigna di più, di fronte all’insopportabile ondata della “mitologia social-xenofoba”: l’eclissi della sinistra, la scomparsa della società civile. Non un pensiero, non una parola che riescano non dico a confutare (sarebbe chiedere troppo, in questi tempi di buio culturale) ma almeno ad arginare l’uso politico della paura e dell’odio contro i migranti. Solo un silenzio colpevole».
«Levatemi questo negro di dosso! Sicurezza! Aiutoooo! Polizia, poliziaaaa!»… l’ennesimo urlo straziante si propaga da una camera… di lontano… dalle pendici di Monte Citorio. In quel momento ho aperto gli occhi.