Leopolda 8: laboratorio di sfigati
Uno dei più grandi crucci della semantica lessicale italiana degli ultimi decenni è stato quello di definire lo “sfigato”. Tipo umano facile da riconoscere, difficile da delineare. Se l’étymos del lemma è “senza figa” – di cui denunciamo convintamente il ributtante sessismo – molti avvertiti linguisti si trovano d’accordo sul minimo comun denominatore lato sensu, identificabile nella mancanza di autoironia: lo sfigato si prende sul serio, «ci crede». Personalmente, ho sempre riscontrato una sfumatura più sottile nell’accezione e trovo risieda nello spirito gregario che si immagina indipendente. Lo sfigato incarna chi è retroguardia ritenendosi avanguardia; chi è schiavo e si pensa padrone. Ora, esiste qualcosa di più conforme a queste prerogative degli individui che ostentano con sicumera l’uso dell’inglese mercatologico? Magari mescolato all’italiano finto rustico di chi si sdilinquisce per le tovagliette a quadretti delle osterie veg? E che ne sbrodola gli stereotipi linguistici con piglio da cittadino del mondo? Possiamo trovare un più preciso riconoscimento, una più esatta individuazione della parola “sfiga” di chi allestisce “un’officina di coworking”? Ebbene, assistere alla Leopolda 8 è stato esattamente come entrare in un workshop di sfiga del nuovo millennio. Dove non si percepisce più un atteggiamento di vile servilismo nei confronti dell’idioma merce, no. L’opportunismo ancillare verso la sottocultura dominante ha lasciato definitivamente il posto all’orgoglio dell’asservimento. Alla tragicomica convinzione di vivere up-to-date, di essere top. Padroni di casa, Matteo Renzi e i suoi millennials. Tema d’esame: le fake news.
Sentiamo allora le testimonianze della ceo di una startup 2.0 che discetta sull’acceleratore di robotica della Qualcomm mentre litiga con le slide che proprio non vogliono saperne di accelerare; e ci spiega che le startup devono essere standardizzate su standard global perché altrimenti non attirano futuro capitale. Che il nostro contesto socio-economico-culturale non è competitivo. Che servono modelli di business riproducibili su scale sempre più grandi ed emessi con il conio dottrinale statunitense. In Italia si pensa troppo local, ma i millennials che hanno viaggiato sono cervelli pronti a rientrare per ricostruire. Matteo la interrompe e prorompe: «Sulla fuga di cervelli in Italia c’è molta retorica». E rilancia con stoccate squisitamente antiretoriche: «Questo Paese ce la può fare grazie a questi ragazzi! Noi siamo quelli che le battaglie le sanno fare!». Poi arriva uno dei massimi esperti in materia a segnalarci che più un tema è polarizzante, più è probabile che si crei una fake news. Ma tosto ci rassicura, perché loro hanno gli strumenti per capire che cosa crea gli antagonismi contro il mainstream. Un analista che si muove a livello mondo con soluzioni bespoke, naturalmente, ma che proprio non riesce a pronunciare Obbbama con una b soltanto e che sfoggia maniche della giacca all’altezza delle falangi. Poco dopo, o poco prima, prende il microfono un altro visionario dell’incontro, profeta del blockchain, che su sollecitazione renziana ci insegna come la digitalizzazione abbia creato molti più mestieri di quanti ne abbia fatti scomparire: la cyber security, l’advertising, il web designer, il troll.
L’anfitrione fiorentino nel frattempo si è tolto la giacca e si è rimboccato le maniche per far capire che è uomo del fare. Ora che si sente compiutamente innovativo, invita con enfasi i suoi ragazzi, che siamo anche noi, a esercitare educazione critica, contro le manipolazioni, contro il conformismo. E ce lo dice indossando un Rolex Sky-Dweller, per far vedere che lui è un anticonformista che sa viaggiare. Poi lancia i tweet, hashtag #lotto. E legge di chi lotta contro i populismi, contro l’intolleranza, contro un’Italia che guarda solo indietro e non sa guardare avanti. Di chi lotta per un futuro migliore. Il compiacimento di questi ragazzi innanzi alle formulette modaiole della freelance economy è immotivatamente motivato. Non sanno per quale ragione, ma hanno ragione. Perché questo mondo è governato da chi ha tatticamente bisogno di un numero sempre maggiore di loro, di utili sfigati. Di questi soldatini macrobiotici e microcefali, iperconnessi e sgangherati, cuorcontenti del convenzionalismo coatto, dell’omologazione repressiva travestita da innovazione. La loro riproduzione sociale è, per usare le parole dell’ideologo, un confimation bias della grottesca religione di dominio. In lontananza, riecheggia Renzi: «Potete realizzare i vostri sogni. Potete diventare presidenti del consiglio. Se è successo a me può succedere a tutti». E qui suonano le campane a Leopoldville. Perché nell’unico momento di pretesa autoironia, c’è il solo momento di verità. Il reale si mostra per ciò che è: autentica fake news. Il discernimento diviene odio, falsità; la stupidità è ormai smart. Il pensiero come ideologia della propria assenza.
Sulle pagine del New York Times si legge di un’Italia che si prepara per la stagione elettorale della fake news. Il segretario Pd ne annuncia con baldanza. Io vorrei approfondire come Repubblica dia notizia della notizia del Times riportata da Matteo, così digito le parole chiave. Trovo l’articolo: «Fake news e politica, scatta l’allarme anche in Italia. Il sito del New York Times ha lanciato ieri l’allarme per l’uso massiccio sui social italiani ma…». Apro il collegamento e mi compare il seguente annuncio, in un carattere strambo, forse Eugenio: «La nuova app di Rep è ottimizzata per i browser di nuova generazione. Leggi le faq per aggiornare il tuo browser». Resto spiazzato, perplesso. Quasi come Pier Luigi Bersani quando cercò di infilare un gettone del telefono nel cellulare. Ma nulla ho da temere, because I care. Domani si ricomincia con i tavoli, con il coworking, con il lungo black friday delle idee a buon mercato. Ma questa volta non scorderò il badge per il mio futuro e attiverò la app del jobs act per una top startup.