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Come annunciato qualche settimana fa, ho scelto di recarmi all’Anteo Palazzo del cinema di Milano per assistere all’ultimo film di Antonio Albanese. Se il chiacchiericcio di questi giorni si concentrerà su Berlusconi e Sorrentino o sui tragicomici editoriali di Michele Serra – già ben conosciuti da chi bazzica questi quaderni – ho deciso di andare Contromano poiché la vicenda è ambientata a pochi metri da dove abito e coinvolge un cittadino che potrebbe essere uno dei miei vicini, impegnato a relazionarsi con un’immigrazione sempre più estroversa. Subodoravo la morale della favola prima ancora di assistere allo spettacolo, ma non volevo recensire un pregiudizio. Così mi sono messo la giacca di velluto marron, ho indossato il cappello del borghesuccio riflessivo, accompagnando tutti i populisti di passaggio con sguardi grondanti benevolente commiserazione, e, dopo aver sfruttato la convenzione con Eataly, mi sono accomodato in sala.

 

 

 

Perdonerete la sinossi lacunosa, ma in questa prima fase sarò breve. Mario Cavallaro (Albanese) è un bottegaio amante del suo lavoro e della routine. Un bel giorno, un ambulante senegalese senza permesso di soggiorno si mette a vendere calzini di fronte al suo negozio portandogli via alcuni clienti. Così, convinto di esercitare il dovere di buon cittadino, Mario decide di riportare l’africano al suo Paese, anche servendosi dell’inganno. Nel tragitto geografico e interiore, tuttavia, si innamora della di lui sorella, bellezza primigenia e malandrina, scoprendo il vero significato dell’integrazione.

 

 

 

Ora, ho scelto questa commediola morale, diretta e interpretata dal salace genio comico di Albanese – qui sempre più immerso nell’acqua dolce – perché è tragicamente esemplificativa della pappa del cuore che siamo costretti a ingurgitare come oche da foie gras, giorno dopo giorno, e che ha rammollito ogni vigore di ragione e di vera compassione. La sceneggiatura prende le mosse da un bambino di colore – adorabile, va da sé – che si presenta come piccola creatura grata, la cui esistenza e felicità è stata resa possibile dall’altruismo di un uomo, Cavallaro Mario. Mario – e ora approfondiamo – è un negoziante milanese di piccole eccellenze virili, che celebra con devozione in un esercizio ereditato dal padre: maglieria, calze, ombrelli, cinture, piccola pelletteria. Single, cinquantenne, vive i suoi rituali quotidiani con tenerezza e puntiglio. Ama recarsi ogni mattina allo stesso caffè per degustare il suo marocchino preparato dall’amico barista, cena regolarmente da un’amica di vecchia data, cura l’orto con meticolosa dedizione e patentata competenza, accarezza e coccola i manufatti che vende riscattandoli dal ruolo di merce. E mentre Augusto, lo spettatore, percepisce il calore di un’esistenza piena di significati, che un singolo paladino cospira per proteggere come un instancabile orticoltore della memoria, Antonio, il regista, insinua il veleno precettivo nel suo stesso organismo d’attore e racconta di un tapino solo, nevrotico, inaridito, infelice. Un uomo inghiottito da un’abitudine stantia, rancida, che grazie a Dio sta per essere spazzata via da una ventata di novità. Il bar che frequenta da trent’anni viene infatti veduto al kebabbaro egiziano, attraverso le ringhiere di via Mario Pagano gruppi di immigrati cominciano a guardarlo come fosse un animale in gabbia destinato all’estinzione, e infine, come agente protagonista del caos – che per Albanese è messaggero di vita – arriva il senegalese Oba (interpretato dal francese Alex Fondja), spacciatore di calzini a buon mercato che si piazza di fronte alla sua vetrina e gli stravolge la vita. Cavallaro reagisce inizialmente con orgoglio di fronte alla presenza inopportuna, sfodera la propria pertinenza dell’essere, accudendo quella prammatica capace di trasformare la roba in qualcosa che va oltre il pregio della materia: un filato intessuto nella sua storia e in quella dei suoi clienti. Ma non conta: la badante russa del “Generale”, suo affezionato frequentatore, lo informa gelidamente che il militare non è più in grado di apprezzare la qualità di un calzino, perché ormai rincoglionito dalla decrepitudine; e quindi andranno più che bene anche quelli in “filo di Svezia” dell’africano. Così Cavallaro passa all’azione e decide di riportare in Africa l’immigrato. Prima lo stordisce con delle gocce clandestine, quindi lo carica sulla monovolume, determinato a scortarlo sino in Senegal. Ed è lì che si assapora l’Albanese autentico, nell’unica scena davvero convincente del film; in auto, la notte, quando il protagonista, con una risata mefistofelica e catartica, si compiace di aver preso in mano la situazione.

 

 

 

Già in partenza, l’immigrato è leggermente stereotipato: faccia da simpatico minchione, marmellata nell’animo, inoffensivo e bonario, con qualche tratto di meschinità analcolica (gelosia, cialtronaggine) per non scivolare nel mito del buon selvaggio. Ma Albanese è un intelligente paraculo e sapendo che l’insofferenza patriottarda del commerciante non era sufficiente come MacGuffin motivazionale della peregrinazione, sceglie la ben più persuadente voglia di passera; mettendo il babbazzo italiano come un pupazzo di pastafrolla nelle mani della suadente sacerdotessa africana, la statuaria e deliziosa Dalida, finta sorella di Oba, in realtà sua fidanzata. La magnetica femmina tropicale fa a tal punto infigare il povero Cavallaro da convincerlo prima a finanziare un viaggetto on the road verso il Senegal più sollazzevole di quanto avesse in animo, e infine a rimanere in Africa per insegnare con l’eloquenza dell’esempio agli incolti locali come far fiorire un seme, cedendo il proprio negozio meneghino proprio a Oba e compagna. Così la coppia di colore rileverà l’attività milanese di Mario, conquisterà il permesso di soggiorno e metterà al mondo il bambino – italiano – che aveva inaugurato l’intreccio.

 

 

Io non so se Antonio Albanese creda davvero nell’allegoria consolatoria che ha messo in scena, ma so che conosce il quartiere, la città, il Paese che racconta. Il suo invito a guardare il diverso con simpatia, senza ostilità, ascoltando la sua storia, le sue rivendicazioni, ripercorrendo il suo cammino… è benemerito. Ciò che sfugge, per fatale assenza di prospettiva o per la volontà di espungere ciò che ispira autentica riflessione, è la pena che suscita il protagonista italiano. Il quale non è da commiserare perché inaridito dalla xenofobia – come la signora milanese dall’adorabile sacchettino veggie bag al mio fianco avrà dedotto – quanto perché testimone diretto dello sgretolamento del proprio ecosistema. Il regista di Olginate ha cercato l’ironia per maneggiare un tema elettrico come l’immigrazione, e l’ha trovata dove non immaginava: è infatti ironico pensare che la favola esordisca con un male di vivere italiano e si concluda con il lieto fine africano. Se facciamo un salto fuori dalla fiaba, scopriremo che l’immigrato medio di Sempione non è il mite venditore di calzini con la donna scolpita nell’ebano e dal sorriso invincibile (e by the way – che fa tanto multiculti – per interpretare l’irresistibile profuga è stata scelta una sofisticata attrice e cantante parigina, Aude Legastelois, compagna di Mathieu Kossovitz, come parigino è appunto il protagonista maschile); piuttosto lo spacciatore che in mezzo al parco mi viene incontro minaccioso in canottiera alla zuava. E’ lo sgangherato perdigiorno che gira come un avvoltoio intorno alle ragazzine a passeggio in shirt sempre più corti. Quel genere di spacciatore e di perdigiorno che faticheresti a convertire al girocollo in Shetland. Il quartiere di Albanese, che conosco bene, è un luogo dove non posso slegare il cane fra le aiuole perché rischierebbe di nasare e ingerire fatalmente sostanze psicotrope, magari nascoste vicino al ponte delle Sirenette del Tettamanzi. Un quartiere dove chiedere alla polizia di intervenire per far sgomberare i numerosi sudamericani che costantemente, quotidianamente, bivaccano sull’erba tagliata di fresco urinando sugli alberi e prendendosi con gaudio a bottigliate dove mamme con bambini dovrebbero poter consumare briosce integrali e formaggette normanne, produce questa risposta: «Se li sgomberiamo, il giorno dopo tornano». Ma usciamo pure dal guano dell’ordine pubblico e parliamo di botteghe di rione. Il negozio di Mario Cavallaro non è fiction, esisteva davvero. Era la boutique di Andrea Canevelli, atelier discreto di prammatica britannica, incastonato come un solitario nel cuore di piazza dei Volontari, dove si confezionavano camicie su misura e si vendevano gli stessi calzini del film. Ci andai più volte e vi acquistai delle robuste derby Crockett & Jones che ancora indosso. Ora il negozio si è trasferito nei pressi di via Monti e in Piazza dei Volontari c’è soltanto una serranda abbassata, firmata da qualche graffito. Quanto alla ristorazione, se domandi un marocchino ai baristi della zona, ma anche un cappuccino, e lo fai dopo le 17… ti guardano come fossi un provinciale del paleoproterozoico; in compenso hanno il Bloody Mary nel sangue. E se vai nel bar dell’immigrato, del cinese come dell’egiziano, non percepisci il calore umano di culture millenarie, balli esotici ed allegrezza tribale: trovi le macchine mangiasoldi e gente che non parla la lingua del Paese in cui vive. Come avevo scritto ormai più di un anno fa, nel mio primo blog, il milanese di oggi rifugge la bottega e spende i soldi guadagnati dalla propria alienazione quotidiana in un ufficio per i ritrovati dell’industria fatta in serie; e mentre lo fa si sdilinquisce per il fatto a mano, che non esiste più nemmeno nelle pugnette, ormai prevalentemente virtuali. Un tempo andava al caffè e c’era il bullo al flipper, le compagnie al biliardo o al calcio balilla, i pensionati alla briscola: oggi ci sono gli zombie delle slot-machine. Mentre le avanguardie metropolitane degustano un frappuccino per sentirsi cool come i newyorker cosmopoliti. I mondi della memoria, diversi da paese a paese, da città a città, dalla formidabile ricchezza espressiva, ora bollati come passatismi da nostalgici del droghiere, sono, erano l’eredità di chi non c’è più. Dei nostri antenati, dei nostri nonni, di mamma e papà. Come la nostra, che un giorno più non saremo. Erano strutture di riferimento che permettevano di pensare, di sentire il reale in una unità coerente fra passato, presente e futuro, che offrivano un significato condiviso alle azioni dei singoli e li proteggevano dalla vertigine della provvisorietà. Questa vertigine oggi è insopportabile e talvolta si trasforma in collasso, come quando un anziano indifeso intercetta tutto l’ethos dei cazzotti di un immigrato rumeno e finisce in coma. Magari proprio a Milano.

 

 

In una delle scene finali del film si vede il ragazzone senegalese, ripulito, vestito con un bel pullover pastello, intento a calarsi in una realtà che non gli appartiene. Un’immagine che vorrebbe aprire la mente e il cuore all’universalità, alle infinite possibilità della solidarietà di un mondo piano come un’asse di legno, senza increspature storiche, linguistiche, culturali, religiose, ma che intristisce immensamente. Non ci sarà chi si prenderà cura per noi di ciò che abbiamo edificato, Albanese! Noi stessi saremo gli aguzzini del nostro olocausto, perché abbiamo permesso che fosse il bottegaio a sentirsi inadeguato e solo. Perché abbiamo permesso che i nostri anziani diventassero carcasse per i capovaccai venuti da dietro le montagne. Perché abbiamo permesso che i maestri venissero ridicolizzati dagli alunni e le forze di polizia dalla teppa criminale. Il futuro di questo Paese, che la storia vede sorgere sul bel visino di un bimbo nero che va all’asilo, integrato da una parabola di generosità nostrana, domani sarà precipuamente alimentato dalla demenza compulsiva, grottesca e sacrilega di nuovi bulletti che infamano il fatiscente rimasuglio dell’autorità costituita. Tutti, bianchi e neri, con l’eguale diritto di ridicolizzare prima i genitori, poi gli insegnanti, infine lo Stato. Forse, nella “rassicurante” conclusione del film, passano già i titoli di coda per il docile autoesilio della nostra nazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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