Quando ieri sono girate ancora una volta le  fotografie con gli “assembramenti”  (nel dopo Covid spero ci sia qualcuno che faccia una battaglia per eliminare questa parola dal vocabolario...) e le relative bacchettate di chi bollava la massa nel fermo immagine come branco di imbecilli, devo confessare che mi sono sentita a disagio. Più guardavo le immagini e più guardavo i commenti a quelle immagini e più non riuscivo a mettermi né dalla parte degli “assembrati” (si potrà dire?) né dalla parte di chi s’indignava sui social, in strada, al telefono, da solo o in cuor suo: vergogna, sarà colpa vostra se domani ci richiudono..

Niente.  Nonostante gli assembramenti non mi piacciano, non mi siano mai piaciuti neanche nell’era a.C. (ante Covid) e forse neanche mi piaceranno in un auspicabile roseo, anzi bianco futuro. Guardavo le immagini e ovviamente la prima reazione è stata quella di pensare “ma sarà proprio così”? Insomma, con le fotografie noi ci lavoriamo e sappiamo che tagliate in un modo o in un altro fanno un effetto completamente diverso…

Poi mi sono bacchettata le mani da sola.  Saranno vere di certo! cavolo. I soliti Navigli e la solita Milano e poi anche le altre città. Come sotto Natale. Come d’estate. Come sempre quando scatta il giallo. La gente, cioè ragazzi, famiglie, nonni … escono. Escono di casa.

Beati loro che ci riescono, subito così al primo “pronti via”,  mi verrebbe da dire prima di mordermi la lingua. Beati quei ragazzi che ancora oggi riescono a passare dal pigiama alla minigonna in un battito di Dpcm, che riescono ad abbandonare la caverna senza mai aver provato la sua sindrome, che organizzano con un amico, un’amica, che ridono e sorridono felici di tornare a scuola senza sentire che, una volta aperta la porta, il mondo non è solo una gigantesca minaccia.

Beati quei ragazzi che non hanno paura di essere additati, pur stando sempre in cima alla lista di chi sparpaglia virus, proprio loro che il virus ha fatto invecchiare precocemente. Che vivono col perenne senso di colpa quando fanno solo quello che gli viene detto di fare. Cioè, solo uscire. Quindi, mi sono morsa la lingua… 

Perchè dall’altra parte, è vero, quelli delle foto sono proprio assembramenti. E gli assembramenti oltre a non poterli più sentire nominare non si possono guardare. Non devono esistere. E anche questo è sacrosanto. Perchè questo virus ancora fa paura. E non si può prendere sottogamba. Lo dico e lo ripeto fino a stancarmi da sola di dirlo e di ripeterlo ai miei figli e pure a quei poveretti dei loro amici quando raramente ormai capitano e pure loro non osano mettere un piede fuori in casa neanche se siamo gialli chiarissimi e c’è un sole che spacca le pietre.

Fa paura un po’ di più quando ci dicono che siamo “rossi”, e anche quando siamo “arancioni”. Quando siamo “gialli” ci fa sempre paura ma pensiamo che possiamo fare delle cose. Fare-delle-cose. Tipo bere un caffé seduto in un bar. Cose così. Stupidate quelle che non contano niente eppure abbiamo scoperto che contano così tanto. Tipo, fare un giro. Solo a dirlo mi sento quasi in colpa. Tanto è vero che io non lo faccio. Però guardo chi lo fa  e penso che non mi sembra poi tanto un imbecille. O un rivoluzionario. O un irresponsabile. Qualcuno magari sì, ma penso che possa anche non essere uno che se ne frega della salute, della sua di quella degli altri, un egoista, un provocatore.

Penso che possa essere semplicemente uno al quale il “comanda color” ha detto giallo. Quindi lui si è vestito, cosa che magari non si ricordava neanche più bene come fare, ha messo il giubbotto ed è andato a farsi un giro in centro. A prendere un gelato. A riprendersi un quarto d’ora non di celebrità alla Warhol ma un quarto d’ora di straordinaria normalità.

Poi quello lì non era più “uno” ma erano di più, sono diventati tanti, perché il “comanda color” lo ha detto a tutti… E allora capisco anche chi guarda quelle immagini, che vive un dolore o lo ha vissuto che non abbraccia i propri nipoti da chissà quanto tempo e  s’indigna davanti a tanta normalità consentita.

Che pur normalità era ed è.

Le regole servono a regolare, appunto. L’unica cosa che può aiutare in questo pandemonio di pandemia  è capire che quello che stiamo facendo o quello di cui ci stiamo privando ha un senso. Ma spesso è l’unica cosa che manca. Come d’estate con le discoteche aperte e le accuse ai ragazzi che ci andavano. O sotto Natale con i ristoranti e il cashback e lo stupore ipocrita (questo sì) di chi ha preso quelle decisioni in quell’esatto momento. Il buonsenso dovrebbe cominciare dove comincia la zona gialla ma la logica dovrebbe guidare il “comanda color”. Insomma, siamo sempre lì:  o si può o non si può fare qualcosa…

Quindi,  alla fine,  siamo tutti a disagio, (come se non avessimo già abbastanza…) tra quelli che escono perchè si sentono in colpa nel fare cose che sono permesse e quelli che s’indignano con l’eco degli esperti tra virologi, infettivologi, medici e compagnia bella che mettono in guardia sul rosso della sera del dì di festa.

Non ci resterebbe che fare  il giallo intermittente. Si esce a cognomi alterni, o con le targhe pari e dispari, come si faceva con le auto nel periodo dell’austerity degli anni ’80. Il lunedì dalla A alla L, il martedì dalla M alla Zeta.  E via così. Un po’ come hanno fatto nelle scuole per garantire il rientro al 50 per cento degli studenti. Due gruppi, dimezziamo uscite e polemiche. Forse. Perchè poi ci saranno sempre quelli che volevano uscire con l’altro gruppo.

(Ovviamente è una provocazione. Si sa mai che qualcuno la prenda davvero sul serio…)

 

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