Mentre mi scorrono nella testa i fiumi di parole e righe di giornali e interviste e controinterviste su quanto sia opportuno e giusto e offensivo e antistorico oppure, viceversa, inutile e paradossale (e potrei andare avanti senza un punto e una virgola per righe e righe anche io ma sono già senza fiato…) che un direttore d’orchestra donna possa chiamarsi (non “essere” ovviamente) direttrice, tanto che alla fine mi sembra che abbiano ragione e un po’ torto tutti, non so più se devo stare attaccata e ben salda al gambetto di quella «a» o lasciarmi scivolare giù, su un altro piano,  più terra terra, diciamo.

Sto lì, aggrappata a quella lettera scivolosa, cercando appigli più forti a destra e a manca, cioè a sinistra, dove troneggiano donne e pure uomini con le idee chiare, chiarissime, senza un dubbio, una sfumatura, sicuri e convinti che di quella «a» non si possa fare a meno (sinistra) oppure proprio non serva (destra).

Per l’appunto, avendo tre figli, due femmine ma soprattutto un maschio, non vorrei mai  pentirmi di aver perso quell’aggancio al gambetto così importante per la parità di genere con conseguenze disastrose come mi terrorizzano a sinistra.

Così chiacchieriamo e richiacchieriamo su questa parola e sulle altre, sul perché si possa dire giornalista e pilota e astronauta senza che schiere di uomini alzino le barricate al grido di «giornalisto» «piloto» e «astronauto». Ascolto chi ne sa parecchio, quelli che hanno studiato la lingua e spiegano che ci sono parole e parole. Non si deve confondere. Ci sono quelle puoi trasformare e quelle che invece no. Parole e parole. E parole e parole. E parole e parole.

Poi tutte queste parole cariche di grandissimo o nessunissimo significato, si schiantano con violenza contro altre parole. E lì mi areno. Con una domanda. Ha senso spendere fiumi di inchiostro e di pensiero sul direttore/direttrice quando non ci preoccupiamo mai, neppure minimamente di riflettere sul fatto che pronunciamo  tutti e con grandissima scioltezza le parole «mamma lavoratrice»?

Sono una mamma lavoratrice. È una mamma lavoratrice.

Lo dicono gli uomini, lo dicono le donne, lo diciamo noi di noi stesse. Per dire che siamo uno e l’altro dobbiamo specificare. Dobbiamo assemblare e già dà l’idea di un’architettura che richiede un certo studio per stare su. Ma quante volte avete mai sentito dire a un uomo Sono un papà lavoratore? Quante volte è stato necessario che un uomo si qualificasse come papà lavoratore? E in qualche modo giustificarsi per esserlo?

Sei un papà lavoratore? E come fai? Che orari fai? Ma riesci? Tutte domande che fatte alla mamma lavoratrice improvvisamente acquistano significato.

Papà lavoratore sì che suona male, anzi malissimo anzi non suona proprio in un mondo dove non ha senso dire papà lavoratore ma  invece ne ha eccome «mamma lavoratrice». Noi ne andiamo orgogliose di definirci così e di esserlo. E vogliamo esserlo, ogni giorno combattiamo per esserlo. Ma se ragioniamo di parole, pure e semplici parole, allora mettiamole insieme al papà lavoratore. Due parole. Due mestieri. Due missioni. «Due» che devono diventare una cosa sola.

Ecco perché (ma me ne rendo conto solo ora… ) quando ho scritto la descrizione del «perché faccio questo blog» ho scritto mammalavoratrice tutto attaccato.

La riporto qui sotto

… Eccomi: “YO”, con la “Y” invece della “I”, con l’incognita irrisolvibile. Espressioni di vita che non quadrano quelle delle mammelavoratrici, che siano al quadrato, al cubo o anche semplicemente “alla prima” (figlia o figlio). Mammelavoratrici, comunque, tutto attaccato perché ogni giorno non si sa dove comincia l’una e finisce l’altra. Ogni giorno è una scommessa che mi sembra regolarmente di perdere…

Quindi, per concludere, rimarrò a rimuginare senza approdare credo da nessuna parte tra il direttore e la direttrice ma in questa giornata di festa della donna mi piacerebbe che ragionassimo comunque meno di parole e più di fatti. Perché dentro la parola donna c’è già magari la mammalavoratrice tutto attaccato così come in un uomo il papàlavoratore.

E quindi parlando di fatti,  cliccate qui «Femministe, come liberarsene», i consigli non richiesti (ma essenziali) della mia bravissima collega Gaia Cesare sul suo blog qui sul Giornale.it. Repetita iuvant e lei lo ha ripetuto benissimo.

Invece il mio consiglio non richiesto è un libro. Si intitola «Il silenzio delle ragazze» lo ha scritto Pat Barker storica americana. Racconta la guerra di Troia vista da Briseide, la schiava di Achille. L’altro modo di guardare la storia, quella epica,  grandiosa. Quella dove le donne erano trofei e premi. Per cambiare il punto di vista perché guardare le cose da un’altra parte è sempre un buon esercizio.

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