Ogni volta che passa il ’29
Jeremy era un giovane yuppie di Manhattan. Quel maledetto «lunedì nero» era l’unico a non dare di matto. La gente sudava, cravatte slacciate, giacche che volavano, disperazione. Era il 19 ottobre 1987 e Jeremy non aveva (…) perso un dollaro. Quando arrivò la sera il Dow Jones aveva perso 500 punti, un crollo del 22,61 per cento. Tutti i quotidiani, a New York e nel mondo, evocavano panico e paura. Bastava un numero, una data: 1929. La Grande Depressione rimbalzava di titolo in titolo. Jeremy era preoccupato solo di una cosa, forse doveva vendere i suoi capolavori. Ai suoi clienti diceva di avere pazienza. Un lusso che i clienti non potevano permettersi, il panico quando arriva ti brucia dentro. E così, per vederci chiaro, si rivolsero all’organo di disciplina di Wall Street. Nella mansarda di Jeremy c’erano Van Gogh, Manet, Chagall e una dozzina di artisti minori. Il broker non aveva investito in Borsa, ma era un maestro nell’acquistare opere d’arte. Fu arrestato. Ma Jeremy passò alla leggenda come ladro gentiluomo.
Il ’29 è un fantasma che semina storie. Ogni volta che il mondo fa crack spuntano fuori quei personaggi di Steimbeck, le corriere stravaganti, treni merci di vagabondi sdruciti, la fame dei nuovi pezzenti, l’America che conosce il sale del fallimento. E Sir Keynes che propone al mondo di scavare buche e poi riempirle, così i salariati lavorano, i soldi girano, Stato e mercato si stringono la mano: una invisibile, l’altra pubblica. Quelle immagini in bianco e nero, mute, con questi uomini che si muovono a scatti, sono una sorta di memoria collettiva che i padri tramandano ai figli. È così che per quasi un secolo il 29 è diventato il numero dell’apocalisse. La paura di perdere tutto: roba, speranza e dignità.
È quella paura che fece scrivere ai giornali del 1987: «Crolla Wall Street, peggio che nel ’29». Cala il dollaro, salgono oro e petrolio. Fu una brutta botta, brutta davvero. Qualcuno si suicidò. Ma non fu l’apocalisse. A vederla ora, più vecchi, si può dire che la caduta di Wall Street segnò la fine dell’ottimismo anni ’80. Spazzò via gli yuppies e l’idea che il denaro cala docile nelle tasche, basta essere un po’ più svegli degli altri. Spazzò via l’estetica dei cocktail, l’etica dell’edonismo, la Pop Art e tutti i cloni di Michael J. Fox, ma soprattutto fece capire al mondo che Ovest ed Est stavano cambiando. Due anni dopo a Berlino cadde il Muro e c’erano tutti i confini da ricostruire.
Aveva ragione Schumpeter. Il capitalismo ha un brutto carattere: crea e distrugge. Muove la storia, genera il futuro, ma lascia a terra sacche di insicurezza. E quando picchia fa male, ma tutto questo serve a tagliare i rami secchi e forse si porta dietro una sindrome a torre di Babele. Quando gli uomini esagerano e cercano scorciatoie per arrivare al cielo li riporta con i piedi per terra. Faticate gente, su le maniche, ora si ricomincia. È così da sempre, anche prima del ’29. Nel 1637 i bulbi dei tulipani venivano scambiati con terreni, animali vivi, e case. Un buon speculatore poteva anche guadagnare seimila fiorini olandesi al giorno. Qualcuno faceva affari con i bulbi ancora da piantare. Questa pratica passò alla storia come «commercio del vento». Quella che oggi chiameremmo «futures». Poi la bolla scoppiò e i tulipani tornarono a essere solo fiori colorati. La botta qualche volta arriva quando corri troppo. Erano 30 anni che le crisi asiatiche crescevano più velocemente di qualsiasi economia al mondo.
Nel luglio del 1997 arrivò la resa dei conti. Le imprese di Corea, Thailandia e Indonesia avevano troppi debiti con l’estero, l’economia era drogata e l’industria di microchip non bastava a reggere tutto. Anche allora si parlò di ’29, solo che arrivava da Est, come una pandemia, come una di quelle febbri che ti lascia senza forze.
Il nuovo secolo intanto stava arrivando. Internet era ancora di una lentezza snervante. Non c’era ancora Google ed era davvero emozionante scambiarsi le e-mail. Dicevano che il futuro si chiamava e-commerce, così in Borsa le aziende che avevano a che fare con la parola internet volavano leggere. Era l’alba della new economy. Precipitosa. Molte aziende avevano siti con migliaia e migliaia di visitatori al giorno, ma non guadagnavano nulla, soprattutto non avevano la più pallida idea di come monetizzare i contatti. Crollo. Il Nasdaq in meno di due anni perde quasi l’80 per cento. Sui giornali si leggono strepitosi reportage da Cupertino, California. Roba davvero da Grande Depressione. Storie come quella di Gordon Seybold, che ogni notte si preparava il letto sul sagrato della chiesa, a pochi metri dal campus della Apple. Era direttore esecutivo di un’azienda di software e guadagnava 125mila dollari l’anno. Seybold era il simbolo degli homeless della Silicon Valley. Sono passati tredici e il ’29 non smette di bussare. Passerà?