L’inverno del nostro scontento
E’ quasi sera e la strada sale con troppe curve. L’unico rumore è il motore di questa monovolume grigioazzurra che arranca e tossisce a ogni cambio di marcia. La terra è dura, fredda, zolle sfregiate da cicatrici profonde, qui dove la pianura finisce e comincia la montagna. Adelina deve avere quasi 70 anni. E’ un’ombra, piccola, piegata, gambe storte. Un fazzoletto le copre la testa, come un velo senza religione. E’ vecchia e non ha alcuna ragione per nasconderlo. Torna dalla fatica, con un vestito marrone che non si trova più in nessun mercato, calze scure e spesse 50 denari. Qui l’autunno è già freddo. E’ contadina, come la nonna e la madre, e come tutti gli avi di cui non ricorda il nome. Il marito è morto sotto un trattore a metà degli anni ’70, colpa delle strade strette e di cunette troppo profonde, due ruote che vanno oltre la linea dell’asfalto, lì dove comincia il vuoto. Il peso le tira giù. L’uomo è schiacciato dalla macchina. Adelina non ci porta fiori. La morte da queste parti è senza cerimonie. Prima o poi ti tocca e non è detto che il prima sia peggio. Sono 30 anni che è sola. Il figlio lavorava in fabbrica, Cassino, lì dove un tempo c’era il fronte e Andreotti un giorno ha portato la Fiat. Sullapressa c’è rimasto un paio d’anni, poi ha scoperto che il sindacato qualche volta è una buona scusa per non lavorare. Si è messo nel giro. Ha gridato: “Manderemo Agnelli a zappare”. E’ riuscito a farsi licenziare e ora fa un lavoro santo. Quando qualcuno ha bisogno di una pensione o di un assegno per l’assistenza degli invalidi va da lui e dopo un mese gli arriva la lettera a casa dell’Inps. Tutto a posto. L’ex sindacalista si accontenta di una percentuale. Adelina di queste cose sa poco, ma ha capito che il figlio campa senza faticare.
Adelina ha cinque soldi di elementari e tutto quello che sa l’ha trovato per strada. Un quarto di secolo fa nella stalla c’erano ancora le mucche, ora c’è solo il ricordo del letame. Ogni sera, dopo le otto, lei passava in paese e lasciava davanti alle porte una bottiglia di latte, quelle da un litro di vetro verde, con i tappi di plastica che i muratori usavano per non far sgasare la birra o la gassosa. Era latte fresco, crudo, raccolto dalle mammelle di vacca in un secchio di alluminio bene o male pulito. Lo facevi bollire, aspettando che si formasse quella panna densa, grassa, che poi tiravi via dalla tazza con il cucchiaio e la mettevi da parte. Era latte senza etichette e tetrapak, senza lunga conservazione, non pastorizzato e con i microbi vaporizzati dai fornelli, senza vitamine aggiunte e omega 3, niente alta digeribilità e fermenti lattici attivi. Latte che ti restava sullo stomaco sull’autobus mentre andavi a scuola, con il panico di ricacciarlo fuori ad ogni curva. Poi arrivarono le aziende sanitarie locali e il latte in bottiglia sparì. Spiegarono che non era igienico e che per certe cose rischi la galera, meglio quello al supermercato, sicuro come una multinazionale, e pazienza se il padrone rifila i debiti e fa bancarotta. Adelina macellò le vacche e se ne fece una ragione. La poca terra che resta le basta per campare. A sentire il figlio dovrebbe chiedere i soldi all’unione europea e su quella terra farci una fortuna.: cibo biologico. Un paio d’anni fa hanno piantato lamponi dappertutto, lei diceva che questi lamponi lei non li ha mai mangiati e che qui ci crescono le visciole. Il figlio ha risposto che per i lamponi gli danno i soldi e delle visciole non frega niente a nessuno. Adelina zitta, gli dispiaceva solo per quei frutti rossi, dopo un paio di stagioni erano tutti morti.
Adelina ti chiama in casa, muri larghi di pietra, odore di muffa, di umido, pane e biscotti, dietro la credenza di ciliegio si nascondono i topi. Ha un televisore che continua a usare come un mobile qualsiasi, qualche volta l’accende, per il resto ci mette sopra bomboniere di matrimoni e comunioni. L’antenna non l’ha mai cambiata, un bastone della scopa regge due stecche di metallo, una per il primo e l’altra per il secondo. Il resto glielo racconta la nipote. Sara a 16 anni aveva un futuro. Seno sodo, polpacci tondi e un volto che ricordava Sophie Marceau al “Tempo delle mele”. Si è fatta qualche concorso di bellezza provinciale e il padre gli ha pagato un calendario, che poi ha venduto qua e là. Qualcuno ha pensato che la ragazza prima o poi l’avrebbero vista in televisione, qualcun altro che era una bella puttana. Sara ora ha 23 anni e lavora in un ipercoop. Raccontano che è l’amante del padrone. Adelina non sa se è vero, ma sa che comunque non importa: “Queste cose le fanno pure i preti, solo che adesso non è più peccato”. Bestemmia la nipote e si fa il segno della croce. Quello che non capisce è la storia del telefonino. Le foto di Sara se le comprano e scambiano anche i ragazzini delle medie. Adelina, che quando telefona ai parenti americani parla più forte, questa storia di Sara nuda sul telefonino gli suona strana. E’ una questione di sensi. Il telefono serve per sentire e parlare mica per vedere. Sara ha detto che è solo un brutto film, colpa di uno stronzo di cui non si doveva fidare: “Sai nonna qualche volta è bello rivedersi, rivedersi dopo”. “Dopo quando?”. “Dopo che l’hai fatto”. Adelina ha detto sì, ma ha continuato a non capire.
E’ buio adesso e Adelina ti stringe forte le mani. Ti guarda negli occhi e ti dice che sono stanchi: “Ma non potevi restare qui a lavorare”. Ai bordi della strada, tra i macchinoni, con questa notte così blu che le stelle ti sussurrano all’orecchio, torni a vedere le lucciole. Adelina ne cattura una con un bicchiere. Poi chiude l’uscio con la mano: “Ecco guarda, lei sta come te”. E sorride. Sull’Ipod, quando torni a casa, senti Cecilia Chailly che canta “Inverno” di Fabrizio De André:“Un campanile che non sembra vero segna il confine tra la terra e il cielo”.