Il giudice Lenzi e gli eroi del disincanto
Quelli come lui ogni tanto si perdono in qualche storia sbagliata. Li conoscete. Sul lavoro sembrano sempre stare un po’ lì per caso, non sai se distratti o menefreghisti. Non credono alle grandi cose che muovonola Storia.
Non si fidano delle parole, soprattutto quando le ripetono tutti. Magari si innamorano di quelle sbagliate. Sono quelli con la barba fatta in fretta, che se vedono passare le gambe di una donna le guardano, senza vergogna. Femminari. Con un segreto di troppo con qualche collega. Sono quelli come Alberto Lenzi, il giudice meschino.
Lenzi è il personaggio di Mimmo Gangemi. È un uomo del Sud, che qualche volta immagina come sarebbe stato vivere altrove, più su. È calabrese. Non fa carriera. Il procuratore capo appena lo vede perde la pazienza. Qualcuno pensa che sia uno scansafatiche. Lenzi glielo lascia credere. Molti che sia un professionista senza etica. Lenzi sa che l’etica non è un’etichetta. Adesso Gangemi lo ha rimesso in pista con un nuovo romanzo, Il patto del giudice (Garzanti). E il meschino non ha cambiato le sue abitudini. Non va in tv a moralizzare. Come tutti quelli che odorano la mafia non porta addosso la giacca dell’antimafia. Se poi la mafia si chiama ‘ndrangheta sta ancora più attento a lasciarsi fregare dai luoghi comuni. Se va a Sarno o a Gioia Tauro non pensa di aver già capito tutto. Non si affida ai manuali del professionista. Annusa. Ascolta. Qualche volta finge di non capire. Inganna. Inganna perfino don Mico, pezzo da novanta, furbo e abituato a parlare per parabole. Per lui Lenzi è uno «sbirro cristiano», uno con cui si possono fare patti tra persone che sanno dare e avere. Come tanti non ha capito nulla. Il giudice meschino non si impunta, non è rigido, conosce la tolleranza e sa guardare il mondo con lo sguardo degli altri, ma quelli come lui hanno un nucleo duro morale che non si tocca, su cui non si tratta, sono i suoi diritti inalienabili, il suo amore per l’uomo, quello che è, con tutti i suoi difetti, non come lo disegnano i profeti della perfezione.
Il giudice Lenzi è un eroe del disincanto. L’umanità, e le storie che la raccontano, sono piene di individui come lui. Si portano dentro una certa dose di egocentrismo e disinteresse. Non saranno mai i primi a partire in battaglia, perché sanno come queste cose vanno a finire. Se però c’è il momento in cui diventa necessario il tutto per tutto, quando i ponti sono bruciati, quando non c’è più spazio per una storia d’amore o di sesso, quando tutto quello in cui credono sta per svanire o la follia della gente non gli permette di tornare a casa, in qualche isola del Mediterraneo dove ti aspetta una donna, una moglie, allora quella diventa la loro battaglia. Fino alla fine. È gente come Conan il barbaro di Ervin Howard, tipi che rinunceranno al potere per non lasciarsi incastrare dalla civiltà. O come Joel Backman, Il broker di John Grisham, un tipo che ha molto da farsi perdonare, ma che costruisce una impeccabile partita di scacchi per rifarsi una vita e smascherare l’ipocrisia di chi lo aveva condannato. Ok. Si capisce che in Joel c’è anche molto di Edmond Dantes, al secolo Il conte di Montecristo.
Pensate a Guerre Stellari. Pensate a Ian Solo. Quando Obi-Wan Kenobi lo assolda per un passaggio sul «Millennium Falcon», lui pensa che sta solo accettando un lavoretto illegale. È un contrabbandiere, con un passato mediocre da ufficiale della Marina Imperiale. È uno che va dietro a quei pazzi che invocano la «forza» solo perché in qualche modo gli tocca arrivare a fine mese. Luke Skywalker lo prende in giro così, con un certo disprezzo: «Dov’è il tuo spirito cavalleresco, Ian Solo?». La risposta è tutto. «Se la memoria non m’inganna, devo averlo dato via in cambio di un crisopazio e tre bottiglie di ottimo brandy, circa cinque anni fa». Il guaio di Ian è che poi si innamora. «Fantastica la ragazza eh, non so se ucciderla o innamorarmi di lei». Ed è per lei, per la principessa, che apre gli occhi e vede l’impero. È per lei, e per se stesso, che guarda negli occhi la morte nera e la fa saltare in aria.
Rhett Butler, quando in Via col vento i gentiluomini del Sud parlano di onore e rispetto e non vedono l’ora di sbudellare gli yankee, risponde con quel mezzo sorriso da schiaffi. Non crede nella guerra. Non crede nell’onore. Crede nei soldi, nel commercio, nella vita e negli occhi di Rossella. Spera che Rossella sia la donna giusta per lui, perché è una che dal vecchio Sud ha ricevuto in dote solo i capricci e le cattive maniere. «Voi non siete un gentiluomo!». «E voi non siete una signora. Non è un titolo di demerito, le signore non mi interessano». Eppure è Rhett, quando ormai la guerra è guerra, a sfidare ogni notte i blocchi nordisti. È lui l’eroe dell’oceano. È lui che ogni colta si gioca tutto. Per una guerra che non avrebbe mai voluto combattere.
Sono tipi così, quelli come il giudice Lenzi. Nella Verona dei Montecchi e Capuleti avrebbero vissuto come Mercuzio, cercando il vino, le feste e lacerandosi le notti e i sogni ad ogni visita della regina Mab. Poi accade che il suo amico perde la testa per l’unica donna da cui dovrebbe stare lontano e, che fai, non l’aiuti? Fino alla morte. «Maledette le vostre due famiglie, avete fatto di me carne per i vermi».
Nessuno. Certe volte sarebbe meglio essere nessuno. Solo che quando il destino ti insegue non basta neppure la furbizia che gli dei ti hanno donato. C’è un uomo che voleva solo restare sulla sua isola di pietra. Fa il pazzo per non andare in guerra. Non funziona. Sta lì dieci anni con esaltati che litigano su tutto. Usa un cavallo di legno solo per mettere fine a quella storia e tornare a casa. Ci mette dieci anni per attraversare un mare nero e maledetto. E meno male che ogni tanto qualcuna si innamora di lui.