Mario Vargas Llosa conosce quasi ogni angolo di Parigi.  Aveva vent’anni  quando si trasferì qui, dal Perù, con la prima moglie.  Lavorava per la  France Press e arrotondava lo stipendio con le traduzioni.  Qui  scrisse il suo primo romanzo La città e i cani.  Incontrò Gabriel García Márquez,  divorziò, per risposarsi con la cugina Patricia Llosa de Varga, poi  andò via, viaggiò a lungo, ritrovò i legami della sua terra e soprattutto  scrisse altri romanzi: La casa verde, Conversazione nella cattedralePantaleon e le visitatrici, La zia Julia e lo scribacchino, Chi ha ucciso Palomino  Molero. E altri, come quel capolavoro erotico che è Elogio della matrigna.
«È il frutto – racconta – della mia amicizia con un pittore peruviano  bravissimo, Fernando de Sislo.  Anch’io amo la pittura.  Decidemmo di  fare un  libro che io avrei inventato e scritto, e lui avrebbe dipinto.  L’idea non  era che io scrivessi una storia e che lui la illustrasse, ma che fin  dall’inizio lavorassimo insieme, in modo da stimolare reciprocamente  la  nostra creatività.  Avevamo deciso che il tema della storia sarebbe  stato  erotico e che in tale erotismo avrebbero dovuto esserci dei rituali.   Rituali  ed erotismo».
È una sera mite, questa, a Parigi.  Si passeggia per le strade strette del Marais, dove c’è il vecchio ghetto ebraico, quartiere che vive di  notte, in fermento per la festa dello Yom Kippur, dove si incontrano gli ultimi  artisti di strada, ora che il «Quartier Latin» è una cartolina per  turisti.   Bella la storia del Marais, che prima ancora di essere ghetto  ospitava gli  aristocratici di Francia.  Allora si era nel ’600, quando Cyrano  cantava,  osservando Roxanne: «Ed il vecchio Marais si risveglia».
Vargas Llosa, 65 anni, rigido nel suo gessato d’altri tempi, con  l’andatura
da vecchio colonnello sudamericano – proprio lui così ostile a tutte  le  dittature – indica, con il suo ombrello inglese, ora un palazzo, ora  un  altro e parla, racconta il suo amore per Egon Schiele,  l’espressionista  austriaco che in qualche modo ha ispirato I quaderni di don  Rigoberto.  Parla  di libri, dei suoi, come La festa del caprone, di democrazia e di  mercati, e  soprattutto del romanzo, di tutti i romanzi, non solo i suoi.  In  fondo si è  qui per questo.
Ecco finalmente un taxi.  Si sale.  Destinazione VII arrondissement.
Nella  vecchia villa del marchese di Talleyrand.  Qui l’Einaudi presenta il
primo  dei sei volumi della sua ultima «grande opera» Il romanzo, un lungo, eroico, coinvolgente, interminabile viaggio  nella  narrativa di ogni tempo e di ogni luogo.  Sei tomi, ognuno dei quali  di quasi  mille pagine, migliaia di saggi.  Il capitano dell’impresa è Franco  Moretti,  sostenuto da un quintetto di consulenti: Ernesto Franco, Fredric  Jameson,  Abdelfattha Kilito, Pier Vincenzo Mengaldo e, appunto, Mario Vargas  Llosa.
È bello ascoltare lo scrittore di Arequipa parlare di romanzi,  dell’idea di
romanzo. È vero: li ama.  Li ama tutti, certo quelli belli, i  classici, i  capolavori, ma anche quelli commerciali, quelli da niente, sì anche  quelli  brutti. «Cosa sarebbe il mondo senza romanzi», chiede, si chiede. «Sarebbe  un mondo più conformista», è la sua risposta.  Ed è meno banale di quanto in  apparenza possa sembrare.  Perché la forza di questo genere letterario è lo  spirito eretico. «La buona letteratura – sussurra convinto – è quella che  mette radicalmente in discussione il mondo in cui viviamo.  In ogni grande  testo di finzione, e spesso anche senza che gli autori se lo siano proposto,  aleggia una predisposizione sediziosa».
Vargas Llosa parla come un tribuno del popolo dei lettori: «I romanzi non
dicono nulla agli uomini soddisfatti del proprio destino, quelli  appagati   della propria vita.  Alimenta invece gli animi indocili, propaga  disaccordo,  è un rifugio per chi ha troppo o troppo poco nella vita, per chi si  sente  incompleto, irrealizzato nelle proprie aspirazioni».  Il romanzo è la  terra  di nessuno di chi non può fare a meno di «cavalcare insieme allo smorto  Ronzinante e al suo scapestrato cavaliere tra le zolle della Mancia, percorrere i mari alla ricerca della Balena Bianca con il capitano Achab,  prendere l’arsenico con Emma Bovary o trasformarsi in insetto con Gregor  Samsa».
Questa sera a Parigi Vargas Llosa non è lo scrittore peruviano, con  un’infanzia in Bolivia, in odore di Nobel.  Non è neppure l’ex  intellettuale  engagé che in un tempo lontano subì il fascino di Sartre e della  révolucion  cubana.  Non è il maturo alfiere della libertà di mercato, convinto  che non  c’è libertà senza proprietà privata o che l’unico neo della  globalizzazione  è non aver reso universali i diritti umani.  Non è nulla di queste  cose.
Appare, o forse è, solo il personaggio di un romanzo ancora da scrivere,  quello di un elegante rappresentante di libri di un futuro prossimo o lontano che cerca di vendere i suoi volumi di carta, rilegati magari ancora  con una certa cura, in un mondo dominato dall’immagine, dove i romanzi non  ci sono più o si perdono nella memoria fragile di qualche cd-rom usa  e  getta. «Un giorno a Madrid il signor Bill Gates disse che il suo sogno era farla  finita con la carta.  Io spero quel giorno di non esserci.  Sono un  vecchio bibliofilo che sa usare Internet, trova la rete utile per le sue ricerche e  i suoi studi, ma teme che il video possa cancellare le parole. Rendere muti  i miei Karamazov, i miei Aureliano Buendia, i miei Stephen Dedalus.   Leggete,  per favore, solo così si può esorcizzare una società affollata da  computer,  schermi e altoparlanti, e senza libri, o precisamente, in cui i libri – la  letteratura – è diventata come l’alchimia nell’era della fisica: una cosa anacronistica, praticata nelle catacombe della civiltà mediatica da  esigue minoranze nevrotiche».
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