Mané e il professor Antezana non avrebbero, in apparenza, dovuto mai
dialogare.  Nessun incrocio, nessun incontro, nulla da dirsi.  Antezana è un
filologo colombiano, saggista, autore di libri come Algebra y fuego.  Lectura
de Borges o Elementos de semiótica literaria, docente alla Universidad Mayor
de San Simón, intellettuale dotto ed erudito.  L’altro, Mané, sapeva appena
sillabare e la sua corsa era un sogno interrotto, una finzione lungo una
linea spezzata. «Allegria del popolo», lo chiamavano ed era a lui che i
compagni lasciavano la palla quando qualsiasi schema era ormai diventato
inutile, o impossibile. «Quando non ci sono più soluzioni datela a Mané»,
questa era l’ultima speranza degli allenatori: affidarsi al caso,
all’imponderabile, all’ispirazione estemporanea di quell’ala destra che
vagava con una gamba leggermente più corta dell’altra sul prato verde,
ricordo di una poliomielite o, per chi crede nel destino, un dono divino, il
segreto di una finta, sempre uguale, che disorientava l’avversario e lo
lasciava a terra, stregato.
Mané e il professore non avrebbero mai dovuto incontrarsi.  Eppure dopo
l’ennesimo complesso di finte, scarti, cambi di velocità, virtuosismi
tecnici e avversari seduti, Mané intravide nel volto di un ragazzo, non
ancora professore, la linea di un sorriso incantato.  E capì di aver regalato
un altro grammo di allegria.  Il professore, crescendo, non dimenticò mai
quel sorriso e si convinse, confondendo Mané e Amleto, sé stesso e Orazio,
che «ci sono più cose in cielo e in terra di quanto la tua filosofia possa
comprendere».  Ed è qui, in questo dialogo di sguardi e sorrisi, che i due
s’incontrano. È qui che Luis H.  Antezana, semiologo di Oruro, legge nel
football di Manuel Dos Santos «Garrincha», chiamato Mané, morto il 21
gennaio di 20 anni fa, solo e rovinato dall’alcol, le «finzioni» di Borges.
E scrive: «Mai realmente compiuto il gioco di Garrincha era come una
promessa non mantenuta: l’eterna promessa che in qualche luogo della terra,
così come sull’orlo di un semplice campo di calcio, un uomo deforme – cioè
tutti gli uomini – avrebbe incontrato il paradiso che pigramente,
giocosamente, innocentemente cercava. “Solo gli dèi possono promettere,
perché sono immortali”, dice Borges, ma aggiunge saggiamente: “Anche gli
uomini possono promettere, perché nella promessa vi è qualcosa d’immortale”.
Grazie, Garrincha».  L’amore che il professor Antezana nutriva per Garrincha
l’ha portato a scrivere una serie di saggi, note a pie’ di pagina sul
football – come li chiama lui – raccolti in un libro che ha nel titolo
l’omaggio al suo eroe: Un uccellino chiamato Mané (Crocetti, pagg. 236, euro
13,50). Ciò che stupisce è la bibliografia.  I Cuentos de fútbol argentino di Roberto Fontanarossa, Il principe della zolla di Gianni Brera e romanzi di Osvaldo Soriano bene o male te li aspetti, ma gli altri?  Hannah Arendt e Roland
Barthes, Walter Benjamin e Georges Dúmezil, Fernando Casas e Michael Foucault e poi l’epistemologo Thomas Kuhn e il linguista Ferdinand de
Saussure, Ludwig Wittgenstein e Octavio Paz, come sono finiti fin qua?  E in
fondo è questo il segreto di Antezana: spiegare il calcio con la filosofia.
E viceversa.  A volte il discorso – la trama di gioco – funziona.  Qualche
volta si perde, ma è proprio ciò che accade in una partita di calcio.  E
allora si può anche spiegare il ruolo del portiere – come fa Antezana in «La
strategia del ragno» – utilizzando le categorie di Foucault.
Lev Yashin dichiarò una volta che un buon portiere è un esperto di
geometria.  Ma è una geometria pluridimensionale, non euclidea.  Il campo di
gioco non è piano, ma è una rete intessuta con il tempo, anzi, con diversi
tempi, alcuni dei quali sono più antichi e più statici di altri e tendono a
confondersi con lo spazio, come avviene nelle incisioni di Escher o nei
quadri di Casas. È come se il portiere si trovasse all’interno di una sfera.
«La sua funzione – secondo Antezana – è leggere il cambio delle forme nello
spazio del football.  Il buon portiere non è solo riflessi, elasticità, mani,
spostamenti: è anche un complesso di grida e di gesti che servono ad
avvisare i compagni o a ordinare loro di assecondare le giocate che lui
indovina».  Il portiere deve vedere gli spazi invisibili all’interno del
gioco.
Ma il calcio di Antezana non può essere solo questo, altrimenti
assomiglierebbe troppo a quello dei freddi maestri della tattica.  E allora
addio Garrincha e non solo a lui.  La filosofia di Antezana è più vicina a
quella di uno Scopigno, l’allenatore “filosofo” che vinse lo scudetto a
Cagliari: scoprire un corridoio per far arrivare la palla al sinistro di
Riva, archetipo secondo il professore colombiano del «gol imparabile»
(«Quando Riva calciava – scriveva Gianni Brera – il pallone schiattava
letteralmente tra i pali»).
Le simpatie di Antezana vanno agli specialisti degli spazi vuoti. «Alcuni –
scrive – come Di Stefano, apparentemente estranei al gioco, si proiettano
verso il vuoto nel quale il pallone ha dato loro appuntamento.  Appartengono
a coloro che sanno “attendere nell’oblio”, come direbbe Jaime Saenz».
L’attesa di chi riceve la palla e la sorpresa di chi riesce a trovare lo
spazio invisibile.  E il tempismo di chi, il difensore, questo spazio chiude.
È lì – dice Antezana – che si svolge il discorso del calcio: «È il luogo
delle apparizioni.  Se fosse lecito raffigurare le aree come statiche
fortezze, allora questo spazio altro sarebbe un vicolo o vicoletto mobile,
duttile, informe, segreto per i compagni e labirintico per gli avversari,
nel quale la sorpresa è sorella del gioco e la creatività è il suo sigillo.
È in questo luogo che si costituisce il calcio e la creatività è il suo
sigillo».
È uno scarto nella nostra percezione. È creare, o far apparire, un luogo che
prima non c’era, che nessuno aveva visto – né in campo, né sugli spalti e
neppure in televisione – attraverso una finzione».  La grande giocata è
un’astrazione. È qualcosa che appare all’improvviso come La lettera rubata
di Edgar Allan Poe. È questa l’illuminazione che se cancellata spegnerebbe
il calcio.  Scriveva Jorge Valdano, colta seconda punta dell’Argentina e del
Real, su El País nel gennaio del 1996: «Gli allenatori suddivisero il
terreno di gioco come una scacchiera e addomesticarono i giocatori per
trasformarli in pedine.  L’unica cosa che continua a infastidirli è il
pallone…  Eppur si muove».
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