Quando è lontano da Maranello gli capita spesso, quando mostra la sua carta
d’identità, quando sussurra il suo nome: «Piero Ferrari?  Ferrari come la
macchina?».  Lui sorride, abbassa quasi lo sguardo, sente quel destino che da una vita lo insegue e dice: «Sì, proprio come la macchina».  Il figlio del
Drake è un personaggio da romanzo borghese, con i suoi toni timidi, la voce
senza rabbia o rimpianti, una serenità che sembra stonare con la sua storia,
con il suo cognome, con quel padre che è epica e leggenda, ma difficile,
scostante, rapito dalle furie del dolore e della malinconia: carismatico
fuori, con gli altri, tormentato dentro, nel suo piccolo mondo, quello per
anni nascosto sotto un paio di occhiali scuri.  E di quel mondo Piero era,
dopo la morte di Dino, l’ultimo affetto.
Piero era il figlio segreto.  In pubblico non ne parlava mai.  Non una riga
sulle sue carte.  Ma era il bambino che aveva voluto, allevato, cresciuto,
protetto.  Chissà se Piero ha mai sofferto per l’ombra di Dino.  Si ha quasi
paura a chiedere, a domandare.  Lui invece risponde, tranquillo: «Quando Dino
è morto avevo 11 anni.  E non sapevo nulla della sua esistenza.  Vivevo in
campagna, con mia madre.  Ricordo l’affetto di mia nonna.  La mamma di
Ferrari.  E ricordo mio padre.  Mi veniva a trovare spesso, ma non mi aveva
detto nulla della sua famiglia.  Non sapevo che avesse una moglie e un altro
figlio.  L’ho scoperto per caso, qualche anno dopo.  Ero in macchina con mia
madre.  Lei parlava con un’amica di quello che era successo a Dino, del
dolore di mio padre.  Io fingevo di dormire.  Ma ascoltavo tutto.  Ho messo
insieme diverse informazioni e ho capito.  Poi mio padre mi ha chiamato a
lavorare con lui, alla Ferrari.  Mi ha spiegato.  Per me non è stato un
dramma.  Ho avuto un padre con un carattere difficile, ma che ha saputo
amarmi».
Piero Ferrari è andato avanti, accettando una vita da «secondo pilota»,
lontano dai riflettori, anche ora che la Ferrari vince e Montezemolo
festeggia.  Lui sta bene nei panni da vice presidente. «Mi diverte di più
lavorare e seguire il lavoro di tecnici e ingegneri.  Mi interessano i
motori, come vengono sviluppati, l’euforia e i dubbi di ogni nuovo progetto.
Sono diverso da mio padre e anche da Montezemolo.  Ognuno ha il suo
carattere.  Ed io sto bene dietro le quinte».  Il suo sogno era studiare
ingegneria. «Mio padre mi disse di no.  E così finii ad economia e commercio.
Non mi sono mai laureato.  Un po’ per colpa mia.  Molto perché mi toccava
lavorare in azienda.  In questo lui era inflessibile.  Mi pagava meno degli
altri e non mi lasciava tempo libero».  Neppure il vecchio era un
progettista. «Ma era un ottimo meccanico.  Aveva intuito.  Quando era pronto
un nuovo motore si faceva fare dai tecnici un modellino della biella.  La
prendeva in mano e la soppesava.  Per lui i motori dovevano essere prima di
tutto robusti».
Piero non diventerà mai il presidente della casa che porta il suo nome:
«Sarebbe imbarazzante.  Io ho solo il 10 per cento, la Fiat il 54».  La
Ferrari vince da quattro anni.  Ma prima, per vent’anni, c’è stato il buio.  E
il mistero, se ti chiami Ferrari, sono le sconfitte: «Potrei dire, mancava
la fortuna.  Ma è una risposta che mio padre non avrebbe accettato.  Ci siamo
andati vicini, prima con Villeneuve e Pironi, poi con Alboreto, Prost, lo
stesso Schumacher.  Ma non bastava.  Dovevamo avere pazienza.  Abbiamo capito
che non serviva, dopo un sconfitta, rimettere in discussione tutto.
Bisognava fare interventi mirati».  Sembra il consiglio giusto per l’Inter di
Moratti.  Ferrari sorride. «Può darsi.  Non sono un appassionato di calcio».  E
suo padre? «Sì, aveva il suo Modena.  Una volta mi raccontò che negli anni
’20 scrisse anche la cronaca per la Gazzetta dello Sport di Modena-Inter.
Finì 0-1.  Ma era tifoso molto accesso anche di un’altra squadra.  Anche se
non lo ha mai voluto dire».  Se si insiste si scopre che è la Juventus, un
altro legame con Gianni Agnelli.
Di piloti Piero Ferrari ne ha visti passare tanti.  Il più goliardico
Regazzoni, il più simpatico Scheckter, il più stimolante Lauda, il più
difficile Villeneuve, il migliore Schumacher. «Mio padre mi diceva: non
affezionarti a nessuno.  Non diventargli amico, perché prima o poi se ne
vanno.  I più fortunati ad un’altra scuderia, qualcuno perché muore.
Purtroppo non gli ho dato retta.  Il mio più caro amico si chiamava Lorenzo
Bandini.  A Montecarlo urta un guardrail e si incendia.  Era il 7 maggio 1967.
E lui guidava una Ferrari 312.  Morirà tre giorni dopo».  Il vecchio, ancora
una volta, aveva ragione.
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