Tutto accade in un giorno solo, dall’alba al tramonto, in un secolo lontano.
È domenica. È l’otto maggio 1898.  A Torino, su un campo in terra battuta, lì
dove un tempo c’era un vecchio velodromo, si sta svolgendo il primo
campionato di calcio italiano.  Ci sono quattro squadre, tre di Torino e una
di Genova.  La semifinale al mattino, la finale il pomeriggio.  Il giorno
prima, a chilometri di distanza, a Milano, l’esercito del generale Bava
Beccaris spara sulla folla.  Sono tanti i feriti, sono troppi i morti.  Il
centravanti del Genoa Cricket and Athletic Club, David Jason Brandi, figlio
ribelle di un ricco armatore, pensa di compiere, insieme a un suo amico
anarchico, un attentato per vendicare i morti di Milano.  La vittima dovrebbe
essere Teodorico Venaria, deputato della Destra e capitano della più forte
squadra di Torino, l’Internazionale.  L’attentato non ci sarà.  E il Genoa
vince lo scudetto.  C’è un amore, c’è una ragazza incinta che verrà
abbandonata, c’è un gruppo di adolescenti italiani che incontra la
modernità.  E la modernità è il calcio.  Questa storia appartiene a Franco
Bernini. È il suo romanzo, uscirà tra un paio di mesi per Einaudi: il titolo
è La prima volta.  Qui, forse, si può scoprire perché il calcio appartiene
alla nostra storia. È il nostro romanzo.  Bastano sei minuti per raccontarlo.
Sei minuti, appunto, come quelli di Rivera a Città del Messico, l’Italia
contro il Brasile, Valcareggi in panchina, Pelè che sale sulla luna,
Burgnich che sembra un gigante d’argilla.  E Rivera – l’uomo che aveva
segnato il gol del quattro a tre ai tedeschi, lassù allo stadio Azteca, mito
nel mito – seduto a guardare la partita.  Entrò per giocare gli ultimi sei
minuti e perdere, condividendo la sconfitta con gli altri, lui che aveva la
maglietta senza una goccia di sudore.  In quei sei minuti c’era tutto il
destino del ragazzo d’oro, il suo personaggio sempre all’incrocio dei venti,
abatino o campione.  C’era un Paese diviso.  C’era una storia, un
protagonista, uno sfondo sociale.  C’era anche l’altro, lo specchio, il
cattivo (o il buono).  C’era Mazzola, anche lui con una storia non banale
alle spalle.  Il padre, l’aereo che cade, gli invincibili che diventano
immortali sacrificando il loro cuore a Superga.  Il sogno dei tifosi di poter
rivedere nel volto di Sandro, anche con la maglia di un altro colore,
neroazzurro e non granata, qualcosa di Valentino.  Le storie si intrecciano,
partendo da un qualsiasi punto a caso, come nel mondo dipinto da Escher,
come nelle visioni di Borges, come la mano di Dio che segna all’Inghilterra,
come gli undici tocchi di Maradona, come il calcio che vendica la storia,
come una vendetta argentina dopo la sconfitta delle Falkland.
Ancora sei minuti.  La partita perfetta forse qualcuno l’ha vista pochi
giorni fa, il 5 gennaio.  Solo sei minuti.  Il Real Madrid il 12 dicembre
giocava in casa contro la Real Sociedad di San Sebastian. È una partita
normale, con un risultato banale, uno a uno, si va avanti su una strada
ferrata, senza scarti di lato, senza improvvisazioni.  Ma all’84º minuto
qualcuno dice che c’è una bomba.  Nessun panico, ma fermi tutti: il tempo,
gli spettatori, gli uomini in campo.  Lo stadio è incantato. È fiaba. È
magia.  Si va a casa.  Sfollano in ottantamila.  In Spagna le partite non si
rigiocano dall’inizio.  Il tempo non è retroattivo.  Mancavano sei minuti alla
fine, si giocheranno sei minuti.  Gli spettatori sono gli stessi.  Sono ancora
ottantamila.  Solo un particolare sembra aver rotto l’incantesimo.
L’allenatore dei madridisti Garcia Ramon non c’è più, al suo posto c’è
Luxemburgo.  A tre minuti dalla fine c’è un rigore per il Real Madrid.  Tira
Zidane.  Due a uno.  Tre minuti dopo la partita è finita.  Ottantamila
spettatori vanno via.  In sei minuti hanno visto la partita perfetta: uno a
zero su rigore.  In quei sei minuti, forse, c’è tutto il calcio.
Sei minuti.  Come quelli di Milano, quattro giorni fa.  Sono tutti convinti
che la Sampdoria batterà l’Inter.  La partita sembra finita.  Sono sullo zero
a due.  Neppure la squadra più folle del mondo può osare tanto.  Segna un
ragazzetto nero che ricorda un romanzo di Mark Twain.  Segna un centravanti
venuto da un altro tempo.  Segna l’uomo delle eterne illusioni.  Il campione
di un giorno solo.  A Londra, in tempo reale, c’è chi scommette.  La
possibilità di vittoria dell’Inter secondo i bookmakers sono 1 a 999. È la
scommessa massima, quella che corrisponde all’impossibile.  Mancano sei
minuti alla fine e qualcuno scommette una sterlina sull’impossibile.  Questo,
forse, è il segreto del calcio.  In sei minuti.
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