È vero.  Non è facile amare il colonnello Sartoris. È uno con troppo orgoglio
in corpo, troppo onore, troppe vendette.  Ha continuato a combattere per una
causa, ci dicono, sbagliata, quando la guerra era già persa e il sangue secco, sui vivi, sui morti, sui campi di cotone.  Ladro di cavalli, dite? Certo.  Affarista senza scrupoli?  Anche.  Incapace di capire – come canterebbe Bob Dylan – che i tempi stanno cambiando?  Sicuro. È uno che uccide per uno sgarro.  Lo ha fatto.  Eppure al colonnello Sartoris, il reazionario Sartoris, il patriarca della saga di Faulkner, l’uomo che incarna il Sud che non vuole passare, che scava l’anima dei figli di Dixieland, e li tormenta, lasciandoli incerti tra due morali, bisogna lasciare l’onore delle armi. Perché lui è l’eroe delle patrie perdute.
Gli invitti  è un libro che Faulkner scrisse pensando ad Hollywood.  Opera minore.  Eppure è proprio leggendo quelle pagine che accade qualcosa di strano.  Guardi il volto del patriarca con lo sguardo di Bayard, suo figlio, e ti accorgi che il taglio tra il passato e il futuro è più netto. È tutto nella scelta di Bayard di rinunciare alla vendetta. È la parola fine su tutto ciò che Sartoris rappresenta.  Una fine senza rancore, l’ultimo badile di terra su ciò che è
stato.  Leggi e pensi che Bayard faccia la scelta giusta.  Appartiene al
nuovo.  Ma scopri anche che Sartoris è un eroe da amare, con tutti i suoi
difetti.  Capisci le sue ragioni.  Il vecchio Sud non ha più ragione di
esistere.  Lo sanno gli sconfitti.  Lo sa Lee che consegna la spada a Grant.
Lo sanno anche gli «invitti», quelli che rifiutano di arrendersi.  E lo sa
soprattutto Sartoris.  La storia è contro di lui.  Forse anche la morale,
l’intelligenza, la forza, il destino.
Il colonnello da tempo non combatte più per vincere, neppure per resistere.
Combatte per essere coerente con un ricordo: fedeltà disincantata ad un
mondo, che per beffa non trova né giusto né bello. È semplicemente il suo.  E
più vai avanti, leggi, e pensi che le sue ragioni le hai già incontrate.
Leggi Gli invitti e ti torna in mente qualcosa del Gattopardo.  Tomasi di
Lampedusa come Faulkner?  No, non è questo. È il principe di Salina che
frequenta lo stesso circolo di Sartoris.  Lì dove trovi l’Austria felix di
Roth, la nostalgia dei narratori tedeschi dell’Est, l’eterna malinconia dei
dubliners.  Eroi delle patrie perdute.  Ed è come se le terre sconfitte dalla
storie trovassero ragione nei fantasmi della letteratura.  Ma nessuno di
questi eroi pensa di tornare indietro.  Non ci pensa il colonnello, non ci
pensa il principe.  Solo che hanno scelto di lasciare ai loro eredi la fatica
della metamorfosi, scoprendo che si può restare in una nicchia, per
continuare a riconoscersi.  Senza drammi romantici.  Loro sono ciò che sarebbe
diventato Jacopo Ortis se non si fosse suicidato sui Colli Euganei.  Sono
l’ardore giovanile che accetta la sconfitta di invecchiare. «E allora a
lungo pensai che fosse la verbena nel risvolto quella che sentivo.  Lo pensai
finché non ebbi traversato la stanza e guardato il cuscino su cui era
posata.  Un singolo rametto riempiva la stanza, il crepuscolo, la sera con
quel profumo che solo si poteva sentire sopra l’odore dei cavalli».  Invitti.
Tag: , , , , , , , , , ,