Il segreto di Facebook: è pieno di bolle e non le cura
La “malattia” di Facebook e di altri social network (Googleplus, Pinterest, …) e motori di ricerca è ormai sempre più conosciuta tra gli addetti ai lavori, me non tra la massa di utenti che ne utilizza (gratuitamente) i servizi. Si tratta delle cosiddette “bolle informative” che infestano, grazie agli algoritmi in continua evoluzione, la presentazione di notizie e contenuti a disposizione di ciascuno. Di che cosa si tratta?
Partiamo da una premessa fondamentale: questi servizi per poter esistere e guadagnare hanno bisogno che le persone non solo li utilizzino (prerequisito), ma che trascorrano più tempo possibile su di essi, tanto meglio se in modo coivolgente (engagement). Perchè maggiore è il tempo trascorso a fruirne, maggiori sono le possibilità di vendita e guadagno tramite le inserzioni pubblicitarie (di qualsiasi tipo, dai banner ai contenuti sponsorizzati e tutto il resto).
Come fare quindi a “trattenere” gli utenti su di sé? A questo tema i big della rete hanno dato nel tempo una risposta dal loro punto di vista ineccepibile: fornendo contenuti personalizzati di maggior interesse e rilevanza possibile per il singolo utente, non solo dal punto di vista degli argomenti, ma anche da quello dei punti di vista a supporto (favorevoli o contrari) e dal tipo di device utlizzato. Se volete averne una prova concreta di quest’ultimo aspetto è sufficiente che apriate il vostro Facebook contemporaneamente dal computer e sullo smartphone: vi renderete conto che non viene presentata la medesima sequenza di notizie sul vostro wall (= la vostra schermata generale di Facebook). Riguardo ai contenuti invece provate a chiedere la consultazione del medesimo termine di ricerca su Google (ad esempio Egitto) a un vostro amico che risiede in un altro stato e contemporaneamente a cercarlo voi (anche utilizzando la versione del motore di ricerca con la medesima lingua): come per “magia” otterrete dei risultati differenti, che sono basati sia sulla vostra geolocalizzazione che su tutto quello che Google sa rispetto ai vostri gusti (l’amico con cui ho provato a farlo io è un grande viaggiatore e la differenza dei risultati è stata considerevole tra risultati “politici”, i miei, e “turistici”, i suoi).
Quali sono le conseguenze di tutto ciò? Facilmente immaginabili, ma spesso sottovalutate dagli utenti. Ci si trova a “navigare” dentro ad un’informazione che non ha un libero o quantomeno simmetrico accesso. Quasi tutti, applicando il principio che nel secolo scorso ha caratterizzato l’informazione mediatica, pensano di accedere ai medesimi contenuti, come ci si trovasse davanti a un telegiornale, radiogiornale o giornale. Questi ultimi avevano il “filtro” dell’editore e dei suoi giornalisti, i big player di internet hanno il “filtro” esercitato dagli algoritmi. La risultante è giocoforza molto differente: quello che leggo io non lo leggi tu, ma soprattutto i contenuti che mi vengono proposti spesso sono in linea con il mio pensiero e non con tutto il dibattito che è presente. Gli esempi più recenti (Trump vs Clinton e Referendum SI/NO) hanno dato ampia dimostrazione di questo fenomeno. Non per nulla gli attivisti di ciascun schieramento erano “convinti” (o speranzosi) di essere in vantaggio… “perchè la maggioranza” delle persone in Rete sta sostenendo la mia posizione” (non ve lo siete sentite dire o non l’avete mai pensato?).
Per non parlare delle Fake News, ovvero notizie palesemente false o a volte talmente verosimili da sembrare vere e che invece sono completamente infondate. C’è chi le produce per guadagnare in pubblicità a sua volta (es: lercio.it) ma lo fa in modo esplicito, chi invece mette su delle vere e proprie imprese per sbarcare il lunario (famosi i ragazzi montenegrini che hanno spopolato durante le presidenziali Usa con news verosimili ma totalmente inventate). Gli utenti le vedono e le ricondividono creando dei meccanismi molto importanti di distorsione informativa.
E quindi? Timidamente Facebook e Google stanno considerando l’idea di “certificare” le notizie a carattere giornalistico di cronaca (che peraltro sono solo una parte di quel che circola in rete), ma ancora non siamo giunti a qualcosa di totalmente affidabile. E su questioni “controverse”, prendiamo ad esempio il caso Stamina o vaccinazioni obbligatorie in Italia, invece viene lasciato ancora il campo aperto a qualsiasi posizione, anche la più assurda o radicale. D’altronde la Rete e la possibilità di dare voce a chiunque e su qualsiasi argomento ha portato ad una polarizzazione delle posizioni e ad una incertezza nelle fonti e nei processi di conoscenza. Ne fanno le spese ad esempio i medici che si trovano pazienti armati di diagnosi e percorsi curativi visti su “internet”, le “dispute” politiche con candidati o personaggi politici investiti da calunnie o attacchi cui è difficile porre argine, i “mass media tradizionali” che si trovano spesso ad inseguire quello che avviene in Rete a velocità molto superiori alla loro capacità di pubblicazione, e infine gli utenti stessi che pensano di avere nella Rete un alleato informativo affidabile al 100%, quando nella migliore delle ipotesi invece la sua affidabilità è al 50%.
Chiudo con un paradosso che ho riscontrato nella mia professione: nella ricerca del significato di un termine non conosciuto un campione di Millennials itaiani (18-35 anni) ha in maggioranza dichiarato di consultare Wikipedia e non il sito della Treccani. Ad un successivo approfondimento la motivazione era la scarsa conoscenza della Treccani, ma soprattutto la non consapevolezza del fatto che Wikipedia è un work in progress continuo e che può contenere errori o inesattezze (a volte del tutto volontarie). Se volete farvi un’idea e sorridere amaramente leggete questo articolo.
La malattia è quindi nota. Le bolle si vedono sempre di più. La cura no. Forse perchè chiedere a chi provoca la malattia (per i suoi fini economici leciti) di trovare una cura (rischiando di guadaganare di meno) non è proprio la via maestra…