Culturexit: Italia un paese di capre
Secondo i dati rilasciati recentemente da Eurostat, l’Italia farebbe meglio solo della Romania quanto a percentuale di laureati fra i 30 e i 34 anni, ovvero hanno un “pezzo di carta accademico” solo il 26,2%. Eurostat stessa fa notare che comunque l’obiettivo del Belpaese che avrebbe dovuto essere raggiunto nel 2020 è stato già superato, ma è ben lontano dal 40% fissato per l’UE nel suo complesso.
Spaventa molto di più constatare che una percentuale vicina al 14% tra i 18-24enni non hanno conseguito un diploma di scuola secondaria, certificando anche l’elevato tasso di abbandono dei percorsi scolastici (alcuni riprenderanno con fatica a studiare nelle scuole serali, ma è una lodevole minoranza).
Quali prezzi veniamo a pagare per questi due fenomeni? Il primo è quello dell’aumento di un segmento di giovani cittadini che rinunciano a scalare il percorso di studi per rivolgersi (sperabilmente) ad un mercato del lavoro che, come ci dicono i tassi di disoccupazione tra i giovani, stenta ad accoglierli. E quindi diventano a breve e anche nel medio periodo un problema crescente per le famiglie e per la società nel suo complesso. Una parte di questi abbandoni tuttavia è solo sintomo di scelte professionali che portano a ritenere la “cultura scolastica” come superflua per lo svolgimento di professioni che richiedono altri tipi di talenti (solo a titolo esemplificativo e senza alcun intento di discriminazione citiamo: barbieri & parrucchieri, estetisti, idraulici, elettricisti, operai edili, …). Sebbene alcune categorie anche tra quelle citate, richiedano sempre più spesso certificazioni di scuole e corsi di formazione per poter accedere alla professione (e qui si aprirebbe un altro capitolo molto lungo).
E per quanto riguarda gli Atenei? La politica di innalzamento del numero di laureati ha prodotto università intasate e sovraffollate da studenti che sono stati invitati al banchetto della cultura con percorsi 3+2, accorciando di fatto un percorso che prima della riforma selezionava (per motivi di reddito e/o di voglia di studiare) gli iscritti. Ma quel che è diventata una stortura vera e propria, è stato l’abbassamento del livello di selezione DURANTE l’iter di studio. A maggiori studenti presenti gli appelli sono stati proposti test di fine corso a scelta multipla ad esempio, per poter gestire un numero esagerato di candidati. Le aspettative dei professori rispetto alla preparazione degli studenti si è abbassata e l’inclusione ha fatto troppo spesso rima con la “promozione” anche con livelli di conoscenza della materia che un decennio/ventennio fa avrebbe portato al noto: “si accomodi e ci rivediamo al prossimo appello…”.
La riflessione che dovrebbe spingere i burocrati europei ed italiani che inseguono una percentuale quasi fosse un mantra è quindi molto meno banale di quel che sembri: vale davvero la pena avere un numero di laureati così grande se la qualità degli stessi si abbassa e genera un affollamento che si rivela peraltro inutile di fronte ad un mercato domestico incapace di assorbire lavoratori, tanto più con un inquadramento e un conseguente livello di reddito auspicabilmente superiore? Sembra come si stia formando un esercito di marinai senza pensare che le navi su cui dovranno lavorare non sono nemmeno terminate a livello di disegno progettuale. E tutto questo a che prezzo?
Siamo quindi sicuri che le “capre” siano gli italiani che non si laureano o questo epiteto riguarda anche chi ha deciso questo tipo di sterili strategie?