Inizio scoppiettante per la Milano Music Week 2017 con un convegno in cui sono stati presentati i dati del Primo Osservatorio Permanente sulla diffusione dei contenuti musicali Instore, ovvero all’interno degli spazi pubblici delle attività commerciali. (Premetto sin d’ora il mio conflitto di interessi: l’indagine l’ho curata io, quindi se ritieni che la cosa possa influenzare l’articolo, non leggere da qui in avanti!)

Il tema affrontato è molto delicato e meriterebbe un approfondimento molto più importante di questo articolo, ma il fenomeno della legalità/illegalità è presto delineato. Un esercizio commerciale in cui vi è accesso per il pubblico deve seguire delle precise regole che tendenzialmente sono sconosciute ai più. In particolare ai piccoli esercizi. Di che cosa si tratta? Non già e non solo del pagamento dei diritti d’autore presso SIAE (spesso identificato anche come l’abbonamento alla radiotelevisione per uso commerciale), ma anche il pagamento di SFC, ovvero “la società che, in Italia, gestisce la raccolta e la distribuzione dei compensi, dovuti ad artisti e produttori discografici, per l’utilizzo in pubblico di musica registrata, come stabilito dalle direttive dell’Unione Europea e dalla legge sul diritto d’autore”. Il virgolettato si riferisce al copia/incolla effettuato dal sito di SCF che sostanzialmente tutela chi ha prodotto e distribuito la musica che a noi e al pubblico piace ascoltare. Per fare un esempio: a Siae i diritti per i brani eseguiti pubblicamente da F. De Andrè a SCF quelli per Ricordi di tutti gli album dal 1978 in avanti. Ma non è finita qui, perchè la diffusione prevede la veicolazione di contenuti che siano stati acquistati a fini commerciali: un cd acquistato dal titolare di un bar (per fare un esempio) non può essere diffuso nel bar. In caso di controllo infatti al titolare verrebbe richiesta la prova di acquisto dei brani nei panni dell’esercizio commerciale e non del cittadino privato. Idem per i brani acquistati via internet (google play, iTunes, Amazon Music, …). Ma non è finita qui. I servizi di streaming musicale, Spotify su tutti, se diffusi in questo momento rappresentano una violazione bella e buona: in modalità gratuita o in abbonamento per privati, essi non possono essere diffusi in ambienti pubblici (non  solo bar, ristoranti o alberghi, ma anche palestre, sale d’aspetto di studi medici, negozi di alimentari, ricevitorie, …). Eppure a chi non è capitato di vedere o sentire queste soluzioni improvvisate? La soluzione per molti è quindi quella di trasmettere la “solita” radio FM che è compresa quindi nel pagamento effettuato presso Siae (che da gennaio 2017 raccoglie anche le quote da versare a SCF), vanificando spesso però una programmazione “adatta” alla propria attività.

Ebbene in Italia il 45% dei Punti Vendita aperti al pubblico (escluse le catene, i centri commerciali e i franchising), pari a 624.000 unità circa diffonde contenuti musicali all’interno dei propri spazi. Lo fa con un intento di intrattenimento (50%) più che di vero e proprio sviluppo delle vendite o collegamento con altre attività di marketing, dimostrando ancora una volta l’arretratezza del nostro paese in questo campo. Altrove infatti, ad esempio in Inghilterra, per non citare sempre gli USA, la diffusione musicale viene curata al punto che all’interno del medesimo punto vendita, in corrispondenza di aree differenti e quindi di tipologie di prodotto diverse, vengono diffusi ritmi e sonorità atte ad aumentare gli acquisti.

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Il tema della legalità, di cui si è a lungo discusso nella conferenza, trova degli ostacoli precisi nella scarsa (seppur in via di miglioramento) comunicazione degli adempimenti da compiere per chi intende diffondere la musica e anche (e forse soprattutto) nella duplicazione delle burocrazie e dei versamenti da effettuare. In questo momento infatti un primo passo avanti è stato fatto (Siae + Scf), ma ancora non è attuata la possibilità di acquistare presso il provider di musica (Spotify  è il più noto ma in Italia non è ancora presente con un offerta per attività commerciali o Mcube che in Italia è leader di mercato ed ha promosso lo studio realizzato da Demia).

Le multe salate cui si può incorre per ora non hanno raggiunto il clamore che porterebbe ad una regolarizzazione di molti esercizi commerciali, che come detto, nella maggioranza dei casi ignorano di essere in violazione delle norme. Tuttavia basti pensare che una chiavetta o un hard disk contenente musica destinata alla diffusione e reperita all’interno del locale (collegata quindi al sistema di amplificazione) può costare una sanzione che prevede una somma per ogni brano memorizzato. Non per spaventare, ma si tratta di decine di euro a brano… la moltiplicazione può “uccidere” economicamente un esercizio commerciale, soprattutto se di piccole dimensioni. Vedremo cosa avverrà nei prossimi mesi/anni in materia…

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