Ciclone Trump e il mea culpa dei media
Dopo i sette Stati conquistati nel Super Tuesday (leggi l’articolo) Donald Trump si porta a quota 316 delegati: per ottenere la nomination gliene occorrono 1.237. Ted Cruz e Marco Rubio continuano a sperare, ma è soprattutto il primo che può avere ancora qualche chance. Intanto le grandi firme dei principali organi di stampa americani, che per mesi hanno sbertucciato Trump, corrono ai ripari. Recitano il “mea culpa” per aver sbagliato (completamente) le previsioni su si lui, considerato un candidato pittoresco ma non in grado di fare sul serio.
“Il fatto che così tanti di noi si siano sbagliati nel non prevedere in un nessun modo la portata del successo- ha dichiarato a Politico David Remnick, il direttore The New Yorker – che sta avendo finora è dovuto in parte al fatto che non potevamo credere potessere attirare sostegni in modo tale”, con una campagna elettorale che fa appello “ai peggiori instinti degli americani”, che in estate aveva scritto che la candidatura di Donald Trump “sarebbe finita ben prima dell’arrivo della prima neve a Sioux City e Manchester”.
James Fallows, da oltre tre decenni commentatore su The Atlantic, ammette che non avrebbe dovuto essere così categorico – come è invece stato la scorsa estate – scrivendo che le chance che Trump ottenesse la nomination erano pari a zero. Quello che forse era stato “sottovalutato è che la qualità principale di Trump non è quella di essere un imprenditore, ma un personaggio televisivo, con delle qualità che gli hanno dato buon gioco in primarie come la competizione da reality show”.
“Il partito repubblicano – si legge in un editoriale della direzione del New York Times – sta facendo un grosso passo verso il diventare il partito di Trump”. Il giornale della Grande Mela accusa il partito conservatore americano di essersi fatto travolgere dal miliardario, al punto che anche i suoi avversari alle primarie stanno scendendo al suo livello. Non solo, nota il Nyt, “un incredibile numero” di elettori sta scegliendo un uomo la cui corsa si risolve “nel prendere di mira le minoranze religiose ed etniche e le persone disabili, flirtare con i suprematisti bianchi del Ku Klux Klan, mettere in ridicolo e calunniare chi non è d’accordo con lui”. Ma chi sfida il miliardario, come Ted Cruz e Marco Rubio, “è a destra di Trump su molte questioni” e “ha adottato lo stesso gioco di esclusione, intolleranza e diffamazione”. Il New York Times non nasconde le proprie simpatie, e osserva che i democratici devono continuare a volare alto. E insiste sul punto: Hillary Clinton, che si avvia verso la nomination, deve continuare a fare campagna in modo “da riflettere il meglio, non il peggio, degli impulsi politici”. Inoltre i democratici, si legge, devono cogliere l’occasione “per mostrare agli americani un’alternativa alla politica della rabbia, mostrando un’immagine di cui si possa andare fieri”.
“Super Trump Day” è il termine coniato da Politico, che osserva che la tornata elettorale ha messo una grandissima ipoteca sulle chance di Marco Rubio, il senatore della Florida su cui, dopo la fine della catastrofica campagna elettorale di Jeb Bush, si erano concentrate le speranze dei vertici del partito. E l’establishment repubblicano non può consolarsi più di tanto, si legge sul Washington Post, che l’unico candidato che ancora non è stato sbaragliato sia Ted Cruz. Il senatore del Texas, infatti, è visto come il fumo negli occhi dai leader Gop di Capitol Hill, che il senatore vicino ai Tea Party solitamente chiama il “Washington cartel”. Proprio per questo motivo per molti repubblicani sarebbe difficile dire quale sia il male minore tra Cruz e Trump.
Di certo la cosa che brucia di più alla leadership repubblicana e, forse ancora di più ai media americani, è che Trump abbia completamente smentito, nei fatti, l’opinione generale dei mesi scorsi, che descriveva la sua campagna elettorale come un fuoco di paglia che si sarebbe esaurito prima della fine del 2015, o al limite dopo le prime battute elettorali. Chi osava di più poneva come fine corsa il Super Tuesday. Il magnate newyorkese, invece, si è dimostrato inarrestabile, attirando alle urne gli elettori più arrabbiati e delusi dalla politica, delusi, al contempo, anche dai vertici repubblicani, duramente accusati di essere stati, negli ultimi anni, incapaci di creare un’alternativa credibile a Obama.