Ci risiamo! Ancora una volta occorre commentare il passaggio a un investitore estero di un’eccellenza del «made in Italy». Anche la mitica Pasticceria Cova di Milano, infatti, diventerà transalpina. La multinazionale Lvmh (quella di Louis Vuitton, per intenderci) ha acquistato la maggioranza dell’azienda meneghina. Nessun dettaglio è stato reso noto: quello che conta è che Cova entrerà nel portafoglio del gruppo guidato da Bernard Arnault dopo Bulgari, Fendi, Emilio Pucci e e Acqua di Parma. Le sorelle Paola e Daniela Faccioli, ex proprietarie della società, continueranno ad essere presenti non solo nel capitale, ma anche nel management.

Vi risparmiamo la solita tiritera sull’italianità da preservare, la debolezza del «made in Italy», eccetera, eccetera. Giusto, per fare un esempio, la francese Kering/Ppr è stata l’unica a salvare Richard Ginori, la nota produttrice di ceramiche e porcellane, dal commissariamento. E poi si è aggiudicata anche il gioielliere Pomellato, aggiungendolo alla sua collezione «tricolore» che già comprende Gucci e Bottega Veneta.

D’altronde Cova che, oltre alla sua storica e raffinata sede di Via Montenapoleone, ha avviato una piccola espansione internazionale aprendo punti vendita in franchising in Cina e in Giappone, voleva crescere. Per crescere occorrono capitali e le famiglie imprenditrici italiane spesso ne sono sprovviste, salvo qualche fortunata eccezione come Tod’s o Ferragamo. Tant’è vero che senza l’intervento di Intesa Sanpaolo e di UniCredit anche Prada (per quello che può valere il tifo di stampo calcistico in questo settore) ce la saremmo giocata nel periodo in cui i debiti erano di difficile gestione. La citazione di Prada non è casuale perché Miuccia e Patrizio Bertelli avevano pensato di rilevare l’80% di Cova per diversificare la loro attività. Ma, si sa, in Italia fare sistema è un po’ difficile. Figurarsi poi la «rivalità» tra vicini di casa nel quadrilatero della moda. L’offerta, secondo indiscrezioni pari a 12 milioni di euro, è stata respinta perché troppo bassa, ma soprattutto la famiglia Faccioli temeva che Prada avrebbe spostato l’ingresso nella più esterna via Sant’Andrea dall’attuale Montenapoleone.

Non vogliamo scadere nella retorica anche perché sia Lvmh che Kering/Ppr si comportano da investitori professionisti, senza toccare una virgola dei preziosi processi produttivi, ma ottimizzando la gestione finanziaria delle società acquisite proprio perché, in virtù delle loro dimensioni, sono in grado di conseguire economie di scala. Se gli ordini sono «maxi», la materia prima costa di meno (un po’ quello che succede a Ferrari grazie a Fiat). Certo, non ci si può non dispiacere dinanzi al pericolo di una «colonizzazione» dell’azienda Italia (rischio che Wall & Street hanno già analizzato). Soprattutto, adesso che a quelle «fragili» (o poco lungimiranti, l’aggettivo mettetelo voi) famiglie capitaliste verrà a mancare quel gioco di sponda che il «salotto buono» di Mediobanca fino a oggi ha garantito. Certo, se mantenere in Italia un’azienda comporta il ripetersi di casi come Mps-Antonveneta, allora ben venga lo straniero…

Wall & Street

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