Quanto sia strategica la rete nazionale delle telecomunicazioni lo rivelano quotidianamente i giornali. Ormai le intercettazioni fanno parte del menu servito dai media. Quante indagini delle Procure arrancherebbero senza il ricorso a queste forme di investigazione? Può uno Stato contemporaneo privarsi di questo asset? Se fossimo negli Stati Uniti, la risposta sarebbe affermativa (tanto la Cia è talmente all’avanguardia da poter essere indifferente nei confronti del proprietario del network, già di per sé spezzettato tra le varie compagnie private). In Europa non vale lo stesso discorso. Ad esempio, in  Germania, Francia e  Svizzera lo Stato è azionista di maggioranza relativa o assoluta del principale operatore telefonico nazionale.

Lo stesso non vale per l’Italia. E questo dal 1997 quando si decise di quotare Telecom in Borsa e il Tesoro in tempi rapidissimi uscì dal capitale. Una scelta dettata dalla necessità di accelerare l’ingresso nell’euro e, al di là dei modi (Romano Prodi avrebbe potuto fare meglio), non deprecabile perché privatizzare è sempre cosa buona e giusta. I veri problemi nascono dal 1999 quando l’Opa dei «capitani coraggiosi» guidati da Roberto Colaninno viene effettuata a debito (circa 100mila miliardi delle vecchie lire). Debito che viene quasi subito riportato in capo alla società acquisita di modo che con i suoi utili possa velocemente ripagarne interessi e capitale.

Il problema è che, nonostante 14 anni di dismissioni, fusioni e riorganizzazioni, le crisi economiche internazionali (quella del 2001-2003 e l’attuale in corso dal 2008) hanno reso più difficili i tentativi di abbattere l’indebitamento monstre che ancora oggi è superiore ai 28 miliardi di euro. Nel corso degli anni, però, Telecom ha sempre avuto una guida italiana: lo Stato, il «nocciolino duro» degli Agnelli post privatizzazione, Colaninno & C., Tronchetti Provera e oggi Telco, una scatola dove il socio più forte è la spagnola Telefonica ma il 53,8% è ripartito fra Generali, Intesa e Mediobanca.

I nodi sono venuti al pettine. Ve ne abbiamo già parlato sia su Wall & Street che soprattutto sul Giornale. Il rischio di impasse, però, è elevato. La trattativa per l’ingresso dei cinesi di H3g è fallita. Lo scorporo della rete è in stand-by.

Scorporo della rete? Sì, proprio la rete di cui parlavamo all’inizio. Telecom valuta il suo asset tra i 12 e i 15 miliardi di euro e ha proposto alla Cassa Depositi e Prestiti di entrare nella nuova società per continuare a garantire l’italianità di questa infrastruttura strategica. Ma l’Authority delle tlc – alla vigilia di questo importante passo – ha proposto di abbassare le tariffe dell’unbundling, cioè il prezzo che devono pagare gli altri operatori che vendono connettività Internet quando sfruttano la rete Telecom. I minori ricavi rispetto al 2012, se il progetto andasse in porto, sono stimati in 110 milioni di euro. Il titolo in Borsa è ai suoi minimi storici e Telecom capitalizza meno di 9 miliardi di euro. Cioè il mercato valuta il gruppo ora guidato da Franco Bernabè meno dei beni che ha in portafoglio: oltre alla rete si annoverano il business della telefonia in Italia e le profittevoli controllate di Argentina e Brasile. Proprio Tim Brasil potrebbe essere «sacrificata» sull’altare della riduzione del debito. Telefonica è forte in Sudamerica e potrebbe dividere Tim Brasil con America Movil per non incorrere in problemi Antitrust.

Telefonica potrebbe anche decidere di comperare tutta Telecom (l’«italianità» della rete sarebbe in qualche modo salvaguardata). Il 53,8% di Telco non posseduto vale meno di un miliardo, «noccioline» per il gigante iberico, una manna per Generali e Mediobanca che non intendono essere più della partita. oppure, visto che l’M&A sta ripartendo, potrebbero pensarci colossi come Deutsche Telekom o come l’americana AT&T che non disdegnerebbe un eventuale shopping europeo.

Tenete a mente un fatto: Telecom nel triennio 2013-2015 prevede di investire in Italia 9 miliardi di euro per ampliare l’offerta di Internet superveloce (sia con il nuovo network in fibra ottica sia con la banda ultralarga mobile LTE). È l’azienda che in Italia investe di più. Perderla, anche a causa della crisi, sarebbe un peccato. O no?

Wall & Street

 

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